Fine dei giochi. Valutazioni in centesimi, spacchettate in competenze e modelli formativi erogati. Da perderci la testa. Si tirano le somme. Mi lascio coinvolgere in una patetica apologia per un'allieva insalvabile. Sono l'unico che perora la causa. Ci metto l'anima. Parlo di cambiamento in corso, di step metodologici che la ragazza inizia ad apprendere, di temi svolti di discreto livello, di poesie riscritte con sentimento, della sua disabilità cognitiva. Non gioco quest'ultima carta. La aggiunge il direttore. Inutile. Il voto inappellabile del consiglio è contro. Come la muraglia cinese, risulta inattaccabile. Nessuno ascolta le ragioni. Nessuno vuole offrire una chance. Nessuno accetta la scommessa della possibile crescita. La ragazza è perduta. Forse per sempre. Mi prende una fame come fosse chimica. Obiettivamente ho speso forze su cui non potevo contare. E' l'ora di pranzo e mangio voracemente zuppe di cereali offerte da colleghi pietosi. Il direttore aggiunge dello sgombro in scatola. Mi riempio di cibo fino a scoppiare. Il dolore non passa e le energie non si ricompongono.
La sera dojo per due ore. E' una fortuna. Scarico sul tatami l'accumulo della giornata lavorativa. Dopo un allenamento con tecniche di gambe da puro massacro, il sensei mi fornisce di bō (棒 : ぼう). E' il bastone con cui i contadini di Hokinawa portavano in modo bilanciato due secchi d'acqua sulle spalle. Ora è un'arma micidiale. Fendo l'aria con un inizio di kata. Il bastone piroetta nell'aria troppo veloce. Credo di dominare l'arma e mi faccio prendere la mano dalle mie energie scomposte. Dopo circa dieci minuti in cui fingo di essere un samurai, colpisco secco lo stinco destro. La palestra amplifica il rumore in modo imbarazzante. Il sensei non fa una grinza e mi dice: "Meglio lo stinco che la testa". Proseguo l'allenamento. Sto più attento. Non provo dolore, ma faccio fatica. Domani avrò un livido.
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