Ora buca. Ultima settimana. Nessuno ci sta più dentro. Ho bisogno di fumare. Raggiungo il parcheggio antistante la scuola. Vago tra le macchine e aspiro ampie volute di fumo. Nella solita aiuola abbandonata a se stessa svetta impertinente il gambo di un papavero. Una sola pianta. Un solo fiore. In verità c'è un altro fiore più piccolo, accanto. Non ce l'ha fatta. Sta visibilmente morendo. Ma l'altro no. E' lì a offrire la sua corolla inconsistente al vento fatuo di una mattina ormai inoltrata. Il cielo è coperto. Ondeggia debolmente, ma resiste. Domani forse non ci sarà più. Non oso coglierlo, come ho fatto un giorno con analogo fiore di camomilla. Si sa che fine fanno i papaveri. Impossibile formarne un serto. Muoiono all'istante. Mi sento un papavero. Molti di noi lo sono inconsapevolmente. Fragili, ma con la presunzione di farcela, anche soli. Ci ammantiamo di una prosopopea che odora di una boria arrogante che solo l'uomo è in grado di elaborare. Ma mentre ci accorgiamo della nostra finitezza, siamo già in altra dimensione. Spesso si muore. Sono questi i momenti in cui considero l'ipotesi che esista un creatore o una creatrice. Ma non ne sono sicuro. Resta l'ipotesi.
Torno dai papaveri che ho lasciato in aula.
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