30 giugno 2010

SERENDIPITY

«La serendipity è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino ».
(Julius Comroe Jr., 1976 - biomedico americano)

Cerco disperatamente un accendino in una casa sempre sottosopra. Trovo invece il flacone perso da giorni di essenza antizanzare. Proprio stasera che l'alta temperatura sembra le abbia fatte uscire tutte quante insieme.
Accade spesso nei pensieri. Seguiamo un filo di logiche perfette e ci ritroviamo in testa un paesaggio d'infanzia o il volto di una persona cara. Così, senza un'apparente spiegazione. Oppure, improvvisamente ci illumina un'idea qualunque, che risulta poi utile nella vita quotidiana.
Il termine serendipità è un neologismo, tradotto dall'inglese. In quella lingua suona come serendipity, appunto. Indica la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista, mentre se ne sta cercando un'altra.
Oltre ad essere indicata come sensazione, la serendipità indica anche il tipico elemento della ricerca scientifica, quando spesso scoperte importanti avvengono mentre si stava ricercando altro.
Lo scienziato francese Louis Pasteur disse: "Nel campo dell'osservazione scientifica il caso favorisce solo una mente pronta". Il medico, come molti sanno, scoprì per caso la pennicillina. Questo significato è reso anche dal detto anglosassone "Chance favors the prepared mind." William Shakespeare ha espresso lo stesso concetto nel IV atto dell'Enrico V: "Ogni cosa è bella che pronta, se anche le nostre menti lo sono".
Nelle scoperte scientifiche l'attitudine alla serendipity fa la differenza. Si pensi ai neuroni specchio. Un ricercatore stava mangiando casualmente una banana davanti ad una scimmia. Vide pertanto che i neuroni motori del macaco attivavano impulsi elettrici, anche se l'animale non stava compiendo nessun gesto.
Anche il Viagra (citrato di sildenafil) è stato scoperto per caso dalla compagnia farmaceutica Pfizer, mentre si cercava un farmaco per curare l'angina pectoris.
Molti ricordano che William Herschel ha scoperto il pianeta *Urano. Pochi invece sanno che in realtà Herschel stava cercando comete. Solo quando notò l'orbita circolare di ciò che per caso stava guardando, si rese conto che si trattava di un pianeta.

28 giugno 2010

SPAZIO VITALE

L'ambiente è essenziale a un equilibrio esistenziale che altrimenti franerebbe miseramente sotto i colpi di forze esterne incontrollate. Intendo come misura dello spazio vitale per ognuno di noi. C'è chi ha bisogno grandi spazi, c'è invece chi si nutre preferibilmente di ambienti interiori e si fa bastare quello fisico che si ritrova. In quest'ultimo caso, il luogo sicuro diventa dunque prima mentale, per poi esprimersi in una qualche metamorfosi esterna che nei casi fortunati mima quello immaginato. Altrimenti si vive dove si può e non dove si vorrebbe. Come molti peraltro fanno.
In natura, si parla di areale: è la superficie abitata di solito da una specie. A sua volta la specie può essere cosmopolita e occupare dunque vaste aree, come l'uomo. Oppure occupare aree molto ridotte, una regione, una valle, un fiume o una sola pozzanghera come nel caso del *Cyprinodon diabolis, un piccolo pesce che vive in una pozza. E se la fa bastare.

IL SOFFIO INVISIBILE

C'è chi lo chiama Prâna. E' l'energia invisibile che unisce gli esseri viventi e che dà loro vita, ma non è costituito da ossigeno, idrogeno o azoto.
I magggiori yogi indiani affermano che «il prâna è la somma di tutte le energie contenute nell'universo». E' l'energia indifferenziata che pervade il creato e che si manifesta in ogni momento e ovunque in forme sempre differenti. Radiazioni elettromagnetiche, magnetismo, gravitazione e persino il pensiero rappresentano sottili forme di prâna. Noi esistiamo in un oceano di prâna. Il Prâna in realtà è una sola energia, ma appare molteplice osservandola nelle sue diverse funzioni.
Tutti gli esseri viventi esistono finché riescono ad assorbire prâna attraverso il respiro, attraverso la pelle, attraverso il cibo. Quando questa energia divina entra in noi diventa prâna individuale, che percorre e permea tutto il corpo come energia sottile della vita eterna. Circola in noi attraverso canali sottili che si chiamano nâdî e assume nomi e funzioni diverse. Mentre inspiriamo, questa energia si diffonde in noi; espirando esce da noi ciò che non ci occorre.
Quando siamo nati il nostro primo atto è stato inspirare ed è un dono che restituiremo con l'ultimo atto che sarà l'esalazione del respiro quando ce ne andremo.
Il prâna può essere accumulato nel sistema nervoso centrale e in particolare nel plesso solare. Lo Yoga fornisce il potere per indirizzare questa corrente energetica coscientemente e volontariamente tramite il pensiero. In sostanza, questo concetto corrisponde a quello della fisica nucleare, che considera qualsiasi materia come energia "arrangiata" in maniera diversa. Il magnetismo, l'elettricita' e la forza di gravita' sono manifestazioni diverse di energia.
Jung racconta di aver studiato che un gruppo di primitivi iniziava la propria giornata respirando nel palmo delle mani e offrendo il respiro al Sole nascente. Quando Jung li interrogò, facendo loro gentilmente rilevare che quella, per lui, era solo una superstizione, gli uomini della tribù risero della sua incapacità di comprendere l’elementare “dovere” di offrire il primo respiro alla fonte d’energia che mantiene in vita il mondo. Ancora oggi in ogni caso nella pratica yoga esiste "Il saluto al sole". Si tratta di una serie di movimenti che accolgono l'energia dell'universo nell'individuo che li attua.
Il termine sanscrito prâna (प्राण) significa letteralmente vita, in seconda istanza viene inteso come respiro. Secondo la fisiologia induista, tutti gli esseri viventi, in quanto tali, sono dotati di prâna, la cui conservazione deriva dal corretto svolgimento di tutte le funzioni psicologiche, emotive e fisiologiche necessarie al mantenimento armonico dell'equilibrio.
Nello Yoga e nelle tecniche di guarigione indiane il saper padroneggiare il respiro assume un ruolo fondamentale, poiché questa funzione viene posta sotto un controllo consapevole.
A leggere o sentire cose di questo genere molti sorridono. Siamo invece disposti a credere a molte fantasticherie senza batter ciglio. Ognuno apra il frigo o la dispensa e osservi quanti prodotti pubblicizzati dalla sola televisione ha in casa. Si considerino anche tutte le volte che abbiamo dato un senso solo nostro alla parola amore. In molti casi si trattava di immaginazione e ci abbiamo messo malauguratamente il cuore e la testa. Ognuno ci ragioni.

24 giugno 2010

CUORE ANARCHICO

Dentro di me covo il cuore di un anarchico. Sempre stato, come mio padre. Complice una radice familiare toscana, non ho mai sopportato l'ordine costituito, la regola, il dettame cieco che nega le differenze e dà ordini. La dimensione falsamente democratica di alcune situazioni sociali mi fa imbestialire. L'obbligo agito come punto di potere, e spesso lo è, mi mette in grande imbarazzo di coscienza. Frasi come non devi, non puoi, non va...e simili mi hanno sempre fatto venire l'orticaria sin da bambino. Era impossibile ordinarmi di fare qualcosa. Facevo cocciutamente il vago e agivo di testa mia. Non discutevo, ma non obbedivo. Non ricordo una sola volta di aver eseguito una qualsiasi richiesta ricevuta. Nemmeno quando nelle foto di famiglia mio padre mi chiedeva un sorriso. Forse a scuola, ma anche lì ho avuto difficoltà con i miei inesorabili esami di riparazione per ogni anno del liceo. Studiavo quello che volevo, anche fuori dalle richieste dei docenti. Trascuravo le materie curriculari che non mi coinvolgevano sufficientemente da essere studiate. Insomma, facevo il più possibile quello che mi ballava in testa. E siccome quello che volevo era leggere, tenevo strategicamente il libro del momento sotto la grammatica greca o latina, non ricordo. In modo che sembrasse che mi stavo ammazzando su quei manuali. In realtà, la mia mente vagava altrove. Nessuno dei miei genitori se ne è mai accorto, o forse così mi hanno fatto credere. Incapaci a comprendere un figlio algebrico oltre la possibile comprensione genitoriale.
A scuola è vietato fumare. Campeggia su tutti i muri con cartelli terroristici per eventuali ignari trasgressori. Con un paio di colleghi ci inventiamo un fumoir in un'aula poco frequentata. In realtà, sono io il pensatore che lancia l'ideona. Sto dettagliando a voce alta le peculiarità di questo luogo per soli uomini. Mi lascio prendere la mano dai particolari della descrizione. Parlo della Francia di inizio '900 e dei fumoir appunto, dove gli intellettuali si riunivano per fumare e bere assenzio. Il pendant dello stesso luogo si trova nei club inglesi per soli uomini in cui, dentro alla segregazione autoimposta di genere, si aggiunge un ulteriore luogo esclusivo per fumatori. In realtà, mi sto inventando tutto, non so esattamente cosa ci sia di vero in quello che ho appena detto. Sente e ascolta il direttore che mi chiede al brucio se a scuola io fumo. Certo, nel fumoir di cui parlavo. Mi ingiunge seduta stante di non farlo mai più in nessuna aula. Io gli rispondo che non avverrà mai più e che scenderò d'ora in poi in cortile. Pena ammonizione scritta. Invece, esco dall'ufficio e mi avvio nel fumoir, rubando una sigaretta dal pacchetto di una collega distratta. Aspiro ampie volute di un tabacco a cui non sono abituato. L'eccitazione per la trasgressione attuata si trasforma tempo zero in un mal di testa stellare. Spengo la sigaretta e mi riprometto che non trasgredirò mai più.

DARE DENARO O ALTRO

Vengo a scuola in macchina. Arrivo più tardi del solito. Le strade hanno traffico caotico e nervoso. Cambio percorso abituale. Percorro vie che facevo anni addietro, prima di scovare strade pià scorrevoli. Ritrovo, allo stesso incrocio di piazza, una zingara che mi ha sempre irritato. Per quel modo che hanno alcuni diseredati di pretendere il portafoglio che si apre. Sempre macilenta, con abiti ostentatamente dimessi e luridi, estate o inverno era sempre lì, ad aspettare il semaforo rosso. Così poteva avvicinarsi alle macchine in attesa di ripartire. Oggi invece mi viene spontaneo, complice un'attesa più lunga del solito, porgerle la prima moneta che mi capita in mano. Mi ringrazia e mi dice che mi vuole bene. Mi turba. Un non so che di caldo si insinua sottopelle e lì resta. Sono quasi felice per quel gesto per me poco abituale e che mi ripropongo invece lo diventi.
Secondo alcune dottrine psicologiche l'elemosina è un modo di alleviare il senso di colpa che può nascere in alcuni individui dal constatare che c'è chi sta peggio di loro. Non so. Stiamo tutti peggio, ognuno a modo proprio.
Il termine deriva dal greco eleèo (ho compassione), da cui attraverso l'aggettivo eléemon (compassionevole) passò al basso latino (cristiano) eelemosyna e da lì alle lingue romanze.
Gesù, usando l'espressione "La tua sinistra non sappia cosa fa la tua destra"(Mt 6,3), indica che l’elemosina, oltre a non essere uno spettacolo dato agli uomini per riceverne lodi, non è neanche materia di compiacimento personale. Deve rimanere segreta, nemmeno pubblicizzata nel proprio pensiero, anche per colui che la fa. L’elemosina non va identificata con la carità, la quale certo la comprende, ma che la supera. Non è infatti un caso che l’enciclica Caritas in Veritate non contenga in nessuna frase la parola elemosina. "Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio" (Libro di Tobia nella Bibbia, 4,7). Con questa analogia, incentrata sullo sguardo, compare la parola elemosina nelle Sacre Scritture. L'Islam mette la zakat tra i suoi pilastri, anche se si tratta di un'elemosina obbligatoria. La ricchezza infatti, per l'osservante musulmano, può essere utilizzata degnamente solo dopo averla purificata, attraverso l'elemosina appunto.
Nella mitologia greca esistono delle divinità collegate a questa significato, le Grazie, mentre nel Buddismo tale pratica assume il nome di Brahmsta. Nell'Ebraismo è denominata tzedakà (צדקה), che tradotta letteralmente significa "giustizia". Il popolo ebraico è storicamente molto accorto nell'uso dei vocaboli. Nell'Induismo, per evitare le reincarnazioni, l'uomo deve percorrere quattro tappe. Tra queste spicca l'assoluta povertà e ascesi che si concretizzano nel vivere di elemosina, accettando solo pane e cereali.
Siamo abituati a collegare l'elemosina al denaro. Penso invece che ci sia altro. E' elemosina offrire il proprio tempo gratuitamente a un amico, fare una telefonata che non desideriamo fare ma che sappiamo attesa, utilizzare le nostre risorse intellettuali (di cui spesso non siamo meritevoli) per indicare vie o percorsi possibili a chi si trova in difficoltà. Anche il lavoro con i ragazzi a scuola dà parecchie occasioni per fare elemosina. Là dove ti impegni senza che ti richiedano, ma dove tu vedi il bisogno. E' chiaro che non ti aspetti nulla in cambio. Nessuno infatti ringrazia. Questo è elemosina: dare perchè molti di noi hanno molto, molti altri invece no. E spesso chi ha non ne ha il merito. Occorre dunque risarcire. Ognuno trovi i suoi modi.
Tutti prima o poi abbiamo necessità di qualche forma di elemosina. Non è facile nemmeno ricevere, sapendo che appunto, trattasi spesso di questua. Porgere una mano per chiedere non è affare da poco. Nè per i poveri nè per chi si reputa ricco.

*Elemosina di Santa Lucia (particolare) Pasqualino Rossi 1770ca.

23 giugno 2010

ELENCHI DEI DISPERSI E DEI SOPRAVVISSUTI

Accogliamo le famiglie per comunicare l'esito degli scrutini. Metto il mio abito migliore e scelgo con cura la cravatta. Alcuni allievi, venuti a scuola con i genitori, stentano a riconsoscermi. Di solito, porto abiti informali. Ma l'evento esige scuola in parata e noi docenti anche. Iniziamo a ricevere alla spicciolata e a fornire motivazioni e legittimazione di giudizi. Come in gioco perverso, mi trovo ad essere solo ad annunciare le bocciature o le salvezze alle famiglie. Inizio con metodo il lavoro di ricevimento. Mi appare infinito. Mi sembra di essere un medico condotto con la sala d'attesa zeppa di pazienti. Mi raggiunge per decoro qualche collega. Poi si defila, come preso altrove.
Perviene tra gli altri, con cappellino da baseball calato sugli occhi, la madre della sciagurata che ho tentato di salvare. Sulla scheda di valutazione campeggiano le mie uniche sufficienze. Mi attacca direttamente, la percepisco alla giugulare; a dire che abbiamo fermato casualmente tre ragazze provenienti dal suo quartiere. Secondo lei, più della metà classe era da fermare. Per lei l'ingiustizia è palese. Squadra con aria sospetta il mio abito buono e dice che siamo una manica di incompetenti. I ragazzi non li aiutiamo per niente ed è evidente che abbiamo diversi problemi. Aggiunge che se sua figlia è una scema, non la manderà più a scuola. La ragazza ha 14 anni e non ha mai ripetuto una classe. E' visibilmente alterata, io non reggo un confronto così diretto e inaspettato, anche se tento risposte a tono. Le voci alte attraggono collega di scientifico che mi soccorre. E' uomo di mediazione più di me. Io esco sconvolto. Non reggo le aggressioni verbali, mi entrano dentro senza ritorno. Mi imbuco in aula vuota e fumo una sigaretta. Il cuore decelera a fatica.
Non mi raccapezzo sull'attacco personale appena subito. Sono emotivamente alterato. Dentro di me maledico la mia lungimiranza. Avevo ragione. Abbiamo agito, in qualità di collegio docenti, come la madre scellerata. Non abbiamo dato chance alla ragazza, esattamente come non ne dà sua madre. Siamo uguali. Come previsto, l'abbiamo persa per sempre.
Mi carico di colpe non mie ma che pesano comunque. Fumo un'altra sigaretta.

22 giugno 2010

SCRUTINI FINALI

Fine dei giochi. Valutazioni in centesimi, spacchettate in competenze e modelli formativi erogati. Da perderci la testa. Si tirano le somme. Mi lascio coinvolgere in una patetica apologia per un'allieva insalvabile. Sono l'unico che perora la causa. Ci metto l'anima. Parlo di cambiamento in corso, di step metodologici che la ragazza inizia ad apprendere, di temi svolti di discreto livello, di poesie riscritte con sentimento, della sua disabilità cognitiva. Non gioco quest'ultima carta. La aggiunge il direttore. Inutile. Il voto inappellabile del consiglio è contro. Come la muraglia cinese, risulta inattaccabile. Nessuno ascolta le ragioni. Nessuno vuole offrire una chance. Nessuno accetta la scommessa della possibile crescita. La ragazza è perduta. Forse per sempre. Mi prende una fame come fosse chimica. Obiettivamente ho speso forze su cui non potevo contare. E' l'ora di pranzo e mangio voracemente zuppe di cereali offerte da colleghi pietosi. Il direttore aggiunge dello sgombro in scatola. Mi riempio di cibo fino a scoppiare. Il dolore non passa e le energie non si ricompongono.
La sera dojo per due ore. E' una fortuna. Scarico sul tatami l'accumulo della giornata lavorativa. Dopo un allenamento con tecniche di gambe da puro massacro, il sensei mi fornisce di bō (棒 : ぼう). E' il bastone con cui i contadini di Hokinawa portavano in modo bilanciato due secchi d'acqua sulle spalle. Ora è un'arma micidiale. Fendo l'aria con un inizio di kata. Il bastone piroetta nell'aria troppo veloce. Credo di dominare l'arma e mi faccio prendere la mano dalle mie energie scomposte. Dopo circa dieci minuti in cui fingo di essere un samurai, colpisco secco lo stinco destro. La palestra amplifica il rumore in modo imbarazzante. Il sensei non fa una grinza e mi dice: "Meglio lo stinco che la testa". Proseguo l'allenamento. Sto più attento. Non provo dolore, ma faccio fatica. Domani avrò un livido.

21 giugno 2010

ANIMALI FANTASTICI

Incrocio un cane. Amo gli animali. Mi fermo volentieri a osservarli. A volte chiacchiero con i proprietari, se il momento e il padrone mi ispirano. Anch'io devo essere in giornata. Altrimenti passo oltre. Passeggio in noto giardino cittadino. Ricerco volentieri il camminare in giorni acquosi come quelli di questo periodo. Il clima si sta sempre più avvicinando a un clima tropicale, sei mesi di piogge e sei mesi di siccità. Siamo nei mesi delle piogge. Apprezzo il tempo mutevole degli acquazzoni.
Preludono ad altri rovesci, in genere con brevi inframezzi di cielo falsamente sereno. Già nascondono nuove piogge. Sono innamorato del cielo changeable d'Irlanda.
L'animale è un Alaskan Malamute. Mai visto nulla del genere. E' grande pressapoco come il mio divano da una piazza e mezza. Mi accosto e lo accarezzo tra le orecchie. Sembra gradire. Stranamente, visto che io odoro di gatti. Il padrone anche è sorpreso, dice che Looney usma i gatti lontano un miglio. E non è mai un bene. Per una strana alchimia che si crea, mi porge spontaneamente la zampa e si appoggia al mio avambraccio. Rischio di cadere per terra. In un secondo ho avvertito lo scarico di circa 45 chili di peso vivo sul mio corpo. Fortuna vuole che mi alleno in arti marziali, così non frano spalmato sulla ghiaia che ricopre il viale dei platani. Il padrone è nuovamente basito dal mio resistere all'urto entusiasta del suo animale. Chiacchieriamo un po'. Gli chiedo se l'animale non soffra il clima basso della città, ma mi assicura che lo porta spesso in montagna. Lì il cane è davvero felice. L’Alaskan Malamute è un cane gerarchico, abituato a lavorare in muta con ruoli ben definiti. Accetta la convivenza con altri cani dopo aver stabilito la gerarchia. A volte due dominanti si scontrano in lotte sanguinose. Tra le peculiarità più sorprendenti c'è la straordinaria resistenza al traino, rispetto ad altre razze. Possiede un'intelligenza e un istinto fuori dal comune, associati a un eccezionale senso dell’orientamento insito nel suo patrimonio genetico. E' quindi in grado di decidere per il meglio in qualunque situazione.
In America, è utilizzato con enorme successo come cane guida per i non vedenti. Come cane nordico, l’Alaskan Malamute, è all’ultimo grado di evoluzione del lupo. In lui spicca una marcata indipendenza, massimo grado di socializzazione, e alto grado di curiosità. Non è adatto alla guardia, poiché non teme l’uomo e accoglie amichevolmente qualsiasi estraneo. Pur non nutrendo affetto esclusivo riconosce il suo capobranco, in genere il proprietario. L’Alaskan Malamute è un cane molto leale, pronto al gioco se invitato. Un compagno ideale per escursioni tra la natura. Ama ovviamente la neve e i climi nordici. La convivenza, con un cane in genere e un Alaskan Malamute in particolare, è un confronto tra due modelli di intelligenza. Il risultato è meno scontato di quello che si può pensare. L’Alaskan Malamute non è un cane territoriale come i molossoidi, nè un gregario come i cani da pastore. Perciò diventa fondamentale farsi riconoscere e accettare come suo capobranco. Difficilmente farà cose perché costretto, vorrà essere convinto. Per convincerlo, non serve farsi temere. E' invece necessario conquistare il suo rispetto e la sua fiducia. Se il padrone riuscirà ad attuare queste due semplici regole, l'animale gli sarà fedele per sempre.

NAM MYO RENGE KYO

Nam-myoho-renge-kyo è il ritmo che regola e comprende la vita dell’universo, secondo gli insegnamenti del Budda. Traduzione letterale: “Dedico la mia vita alla mistica Legge del Sutra del Loto”. Myoho-renge-kyo è la traduzione in cinese antico del titolo del Sutra del Loto, il più alto insegnamento del Budda Shakyamuni.
La parola NAM fu aggiunta in seguito da Nichiren Daishonin (1222-1282) ed è la contrazione di namu che significa onore, lode, devozione. Pù precisamente ha due significati: il primo è quello di legare, armonizzare la propria vita con la legge dell’universo, l’altro è quello di attingere l’energia e la saggezza per orientarsi nelle difficoltà della vita quotidiana.
E' interessante notare che namu è sanscrito e origina dallo stesso ceppo linguistico di tutte le lingue indoeuropee e quindi occidentali, mentre Myoho-renge-kyo è cinese antico da cui traggono origine le lingue orientali. Esprime l’universalità della Legge, che è valida per chiunque appartenga al genere umano.
Per quanto riguarda myo e' semplicemente la misteriosa natura della nostra vita di momento in momento, che la mente non può comprendere e le parole non possono esprimere. Se guardi nella tua mente in qualsiasi istante, non puoi percepire né un colore né una forma per verificarne l’esistenza. Tuttavia non puoi neanche dire che non esista poiché pensieri differenti l’attraversano di continuo. La vita è veramente una realtà inafferrabile che trascende sia le parole che i concetti dell'esistenza e della non esistenza. Non è né esistenza né non esistenza, e tuttavia ha le caratteristiche di ambedue. E' la mistica entità della Via di Mezzo che è la natura di tutte le cose. Myo è il nome dato alla misteriosa natura della vita e ho alle sue manifestazioni.
Ho (letteralmente Dharma o Legge) indica tutte le manifestazioni perennemente mutevoli della vita che non sono mai separate dalla realtà fondamentale. Sta a significare che la Legge mistica (cioè la natura illuminata del Budda) si esprime nella realtà della vita quotidiana e che l' Illuminazione del Budda, l’energia vitale cosmica, è sempre presente nello stato di latenza in noi stessi, negli altri e in tutto ciò che ci circonda. Recitando Nam-myo-ho-renge-kyo (daimoku) è possibile risvegliare questa energia.
Nichiren Daishonin spiega: «Myo significa morte e ho vita». Ogni cosa nasce e muore, passa dall’esistenza alla non-esistenza, ma la sua entità rimane invariata e non può definirsi né esistenza né non-esistenza in un ciclo infinito. Dal punto di vista del Buddismo la morte è un temporaneo ritirarsi nello stato di latenza necessario per ricaricarsi dall’energia utile a tornare in vita.
Renge (il fiore di loto) simboleggia appunto la Buddità che emerge dalla vita dei comuni mortali immersi nelle sofferenze e nelle illusioni. Questo fiore, simbolo di purezza, sboccia solo nell’acqua fangosa degli stagni. Lo stesso vale per gli esseri umani. Proprio grazie ai problemi e alle difficoltà è possibile far emergere la condizione del Budda dalla propria vita. Ma soprattutto renge rappresenta la simultaneità di causa ed effetto. Il loto infatti è l’unica pianta che produce fiore e frutto allo stesso tempo. Il Buddismo afferma che, a un livello più profondo, la causa e l’effetto sono simultanei. Partendo dalla continuità di passato, presente e futuro nel momento in cui si pone una causa (attraverso pensieri, parole e azioni) si produce immediatamente un effetto che si manifesterà senz'altro.
Kyo significa sutra. Poiché Shakyamuni impartì i suoi insegnamenti solo oralmente, alla parola kyo è stato attribuito talvolta il significato di suono. Inoltre l'ideogramma cinese che corrisponde a kyo originariamente significava l'ordito di un tessuto e, forse perché quest'immagine racchiude simbolicamente l'idea della continuità, kyo prese anche il significato di insegnamento che dev'essere preservato e tramandato alle generazioni future.
Occorre crederci. In altro modo, il tutto resta insensato.

20 giugno 2010

MEZZI DI LOCOMOZIONE

Aspetto amico nelle vie del centro cittadino. Parcheggio comodamente in area inaspettatamente semi deserta, mi accendo una sigaretta e passeggio. Poco più avanti, sul marciapiede, accostata al muro di passaggio, campeggia una moto. Non una moto qualunque. Si ricordi Easy Rider, lo spettacolare road movie del '69, diretto e interpretato dall'inusuale Dennis Hopper. E poi Jack Nicholson e Peter Fonda a formare un impareggiabile duo, sulle strade di un'America che non riconosciamo più. Forse esistita solo in certi film. Le moto dei due hippy erano delle mitiche e ferrugginose Harley Davidson, sfiancate da chilometri di percorsi sulle strade dirette al carnevale di New Orleans.

È il primo film in cui i protagonisti fumano tranquillamente marijuana senza poi commettere atti criminali. Durante la scena nella quale Fonda piange nel cimitero vicino alla statua della Madonna, ripete più volte delle frasi non del tutto chiare: "Perché mi hai lasciato solo mamma". Sembra che quella battuta fosse stata detta casualmente durante una crisi del protagonista dovuto all'uso di LSD. La madre di Peter Fonda invece è realmente morta quando lui era ancora adolescente.
Insomma io sto nel mio stato onirico cinematografico e guardo questa Harley, quella del marciapiede. Perfettamente cromata, nera come da protocollo, fiammante nella sua novità su strade che evidentemente non ha ancora percorso in modo consistente. I cerchioni delle ruote sono di acciaio lucido, quasi irreale. E' una moto finta, da vetrina. Mi acciglio e dentro di me qualcosa di impercettibile si irrigidisce. Spengo la sigaretta e infilo il mozzicone in un buco del cerchione anteriore. Me ne vado più leggero.

18 giugno 2010

ENIGMI E MISTERI

La scuola è ormai un deserto. Faccio il giro delle aule, così per una specie di nostalgia. Sul porta estintore rosso in un'aula campeggia un post-it giallo: SE TI DICO UNA COSA...CI CREDI? QUESTO NON E' UN CESTINO. Sorrido tra me stesso e ricordo l'episodio di pochi giorni prima della fine delle lezioni.
M. mi rincorre in corridoio con il post-it di cui sopra e mi dice: "Profe, sicuramente questo l'ha scritto lei, ci abbiamo scommesso tutti! Non dica di no, tanto non le crediamo". Eh.
In modo poco convincente dico che non c'entro niente. I ragazzi si sentono presi in giro. Qualcuno mi dice che manca solo la mia firma, che quello stile può essere solo il mio. Sorrido a tutti e mi rifugio in sala professori.
Ragiono su quello che siamo e che sembriamo alle persone che ci circondano. Immagini confuse di quello che ci raccontiamo di essere e che ci sforziamo di far intendere agli altri. A volte prendiamo in giro il prossimo senza dolo, così nella nostra sciagurata idea di essere veri. Essere, apparire, sembrare, sognare di essere, desiderare di essere. Forse alla fine siamo un po' di tutto questo e non ci raccapezziamo più nulla. E' il "guazzabuglio del cuore umano" che non dà tregua a noi nè a chi ci inciampa. Siamo un enigma permanente per noi stessi. Ed è il motivo per cui facciamo fatica anche con gli altri che ci riflettono i loro misteri.
Importante è non fare trucchi, non ingannare volutamente. Per il resto, si rimedia.

17 giugno 2010

I FILI CHE LA VITA RIANNODA

Gli esami sono finiti. Tutti fuori con onore e merito dei più. Qualcuno con la classica pedata che non risolve, ma aiuta. Sto riordinando le carte, quando mi dicono che mi cerca un rappresentante di nota casa editrice scolastica. Nascondo un moto di stizza, ero impegnato in altro. Poco dopo raggiungo all'ingresso della scuola la persona che mi aspetta. E' un uomo anziano, avrà più di 75 anni. Mi confiderà poi che è del '29. Lo invito a seguirmi in sala professori dove si può parlare con più agio che non in piedi nell'atrio. Mi biascica una presentazione che intuisco con inclinazione veneta. Non amo particolarmente le persone che provengono da quei luoghi e tra me e me maledico la mia disponibilità. Appena ci sediamo e tira fuori il suo armamentario didattico, capisco che ho sbagliato. La calata di Arnolfo è senza dubbio toscana. Non posso sbagliarmi e non capisco come posso averlo fatto prima. Mio padre veniva dalla patria di Dante, l'accento di quei luoghi non lo perdi mai e lo tramandi alla tua progenie. Pur da 40 anni fuori la sua terra natia, mio padre non perse mai quel caldo accento che elide le c aspirandole in suoni indefinibili. Gli chiedo da dove viene e gli dico che anch'io ho origini toscane. Ci ritroviamo, compaesani in terra straniera. E' un attimo. Mi sembra di guardare negli occhi mio padre. Ritroviamo casati conosciuti, luoghi dei ricordi, storia delle contrade. Infine coup de thèatre. Sua figlia, negli anni in cui ha abitato in città, è stata allieva nella scuola dove insegnava mia madre. Scorrono nomi di persone che abbiamo conosciuto entrambi: un prete amico di Vallanzasca e un pittore che insegnava disegno. Entrambi insegnanti di sua figlia e colleghi di mia madre. Non ci posso credere. Ci ripromettiamo di vederci prima dell'estate. Mi porterà dei testi di cui ho chiesto. Lo accompagno alla porta e gli dico che la porta dirimpetto alla nostra è l'entrata di un'altra scuola professionale. Mi confessa che ha sbagliato venendo da noi, che in realtà cercava quella che gli sto indicando. Lo introduco al direttore didattico, ci salutiamo chiamandoci per nome. Torno alle mie carte con un senso di calore che non provavo da tempo.

15 giugno 2010

NON SONO UN CAVALIERE

Passo appena posso i miei fine settimana in paese litoraneo del Nord. Sono luoghi d'infanzia, aspri e selvaggi solo come certi pezzi di paesaggio sanno essere. Mi trovo in una stretta spiaggia sassosa, riparata dagli sguardi famelici dei turisti di passaggio. E' una minuscola caletta, in cui il promontorio di verdi pini marittimi si specchia nel piccolo golfo che si crea. Si giunge per una litoranea incerta, costellata da cartelli di divieti di passaggio causa caduta sassi dalla montagna che incombe a ridosso. A destra monte roccioso, a sinistra il mare. Si cammina per poco più di un quarto d'ora, a partire dal piccolo paese di pescatori di cui fa parte. Nelle giornate di mare mosso occorre fare attenzione che i flutti non ti raggiungano. Se si ha la fortuna di arrivare asciutti, dopo un'ultima curva del camminamento, si apre appunto la caletta di cui ho detto. E' sempre uno spettacolo inatteso. Non sai mai di che colore sarà il mare quel giorno. In genere però, la vegetazione circostante, in cui prevalgono alberi sempreverdi, conferisce allo specchio d'acqua un colore verde smeraldo profondo, su cui di volta in volta giocano i colori di un cielo mutevole. Non porto monili o ornamenti di alcun tipo, tranne una catenina al collo con un *simbolo. Mi siedo sui sassi della spiaggetta e una donna mi avvicina chiedendomi se sono un cavaliere dell'Ordine di Malta. Infatti, alcune delle costruzioni che occhieggiano tra i pini appartengono appunto all'Ordine; vengono affittate a immigrati di lusso delle regioni limitrofe in cerca di mare. In realtà, non sapevo nemmeno che quello che porto al collo ne fosse l'effige ufficiale. Altre simbologie investono nella mia storia questo oggetto, dono di una persona a me cara.
Per me infatti è la Croce di Gerusalemme, l'antico simbolo dei cristiani d'Oriente. Secondo la tradizione, il blasone di Gerusalemme, «d'argento, alla croce potenziata d'oro, accantonata da 4 crocette dello stesso», contravviene volontariamente alla regola di contrasto dei colori. Si tratta di una trasgressione ricercata, per meglio marcare il prestigio totalmente particolare di questa città e della religione di cui è simbolo perenne.
Gerusalemme, la città del cuore spitituale dell'umanità. Lì hanno trovato la propria culla le tre grandi religioni monoteiste: cristianesimo, ebraismo e musulmanesimo. Ognuna di queste tre religioni ha avvertito in modo inappellabile in questa città il suo senso storico e spirituale più vero. Per motivi diversi, ovviamente.
Gerusalemme diventa in ebraico ירושלים
Gerusalemme diventa in arabo la città santa القُدس أُورْشَلِيم,
Dico alla donna che non sono un cavaliere dell'Ordine di Malta. Pare delusa. Le dico che per me ha altri significati. Sono volutamente scostante. Vagamente irritata mi lascia solo e si avvia verso un piccolo bar prospiciente la cala.
Il mare è invitante, ma l'acqua è ancora fredda per una stagione estiva che fatica a farsi largo. Ho bisogno di muovermi. Mi immergo in un verde che mi appare gelido e impegno il corpo in una specie di nuoto. Il freddo non passa.

*L'mmagine riportata raffigura la Croce di Gerusalemme incisa sul retro di una moneta, reperibile per i numismatici, in diverse dimensioni. A seconda del peso infatti, è stata classificata come soldo, mezzo soldo o quattrino. E' possibile trovare varianti anche nel disegno della corona che sormonta la Croce.

CROMATISMI

Ci sono colori che ci appartengono, che segnano in qualche tortuoso modo la storia personale di ognuno di noi. Per me è il blu oltremare, un colore che mi accompagna da quando ero un giovane e spensierato ragazzetto, tutto gambe e ricci.
Il pigmento blu ha lasciato tracce nella storia un po' ovunque. E in una strana misura mistica ti senti parte dell'universo. Ad esempio, sono state trovate tracce di azzurrite (2CuCO3·Cu(OH)2) e blu cinese (BaCuSi4O10) di struttura chimica non lontana da quella del celebre blu egiziano nell'esercito di Terracotta ritrovato in Cina.
Al di là dell’interesse puramente storico, i guerrieri di terracotta sono interessanti dal punto di vista dell’arte pittorica, in quanto risultano decorati con una policromia a più strati, la cui base è una lacca orientale nota come Qi-lacquer, ottenuta dalla pianta Toxicodendron vernicifluum o albero della lacca. Il principio attivo di questa lacca è il composto urushiolo (sotto), attraverso la cui polimerizzazione la lacca indurisce all'aria e forma uno strato liscio, che si mantiene intatto in condizioni di umidità elevata (75-85%).
Sfortunatamente, subito dopo gli scavi che hanno portato alla luce i reperti archeologici, la policromia ha subito un degrado notevole sia sullo strato di lacca, sia sugli strati pigmentati, a causa del brusco calo di umidità nell’ambiente circostante. Per arrestare il processo di degradazione è stato necessario consolidare la lacca, infiltrando sostanze polimeriche nella sua struttura porosa. Sulla lacca sono stati individuate tracce più o meno estese di pigmenti colorati, tra i quali appunto spiccano i colori di cui sopra. L’origine dei due pigmenti è datata al più tardi all’VIII secolo a.C. e si ritiene che l’impiego più diffuso sia stato sotto le dinastie Q’in e Han (221 a.C. - 220 d.C.); l’uso in periodi successivi non è accertato. Resta un affascinante mistero.
Il colore blu intenso del lapislazzuli è utilizzato e apprezzato da almeno 6000 anni. E' necessario chiarire bene la terminologia: il pigmento andrebbe chiamato oltremare o blu oltremare, mentre lapislazzuli è la roccia da cui si ottiene il pigmento, a sua volta composta prevalentemente dal minerale lazurite. Il nome deriva dal latino medievale lapis lazuli, ovvero pietra azzurra. Il termine lazulum discende dal persiano lazward, cioè azzurro, passando per l'arabo lazaward e per il basso greco lazourion. (Materiale proveniente da studi effettuati dall'Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro). Anche gli etimi hanno il loro fascino.
E poi ancora la simbologia del colore che, rappresentando il vuoto e l'infinito, richiama all'introspezione e a percorsi personali di meditazione e crescita spirituale, a partire da fatiche intellettuali. Il blu è profondo e nostalgico, ci ricorda il cielo e gli abissi, dove l'uomo da sempre si perde. E' il colore della contemplazione e della spiritualità. E' associato alla forma geometrica del cerchio, simbolo dell'eterno moto dello spirito, insieme di quiete e dinamismo. Il blu per i cinesi è il colore dell'immortalità. È il colore del silenzio e della moderazione. In una stanza blu il cuore umano batte meno velocemente, perché è un colore che simula pace e sicurezza. Anche gli oggetti sembrano più piccoli e leggeri.

14 giugno 2010

LA VITA E' SOGNO E IL SOGNO E' VITA

Domani iniziano gli esami. Qualcuno si affaccia comunque alla scuola, in cerca di conforto psichico. Ansia a pacchi. Agli allievi sfugge completamente l'assoluta relatività del momento. Nessuno considera che la vita è un'accozzaglia di esami. La differenza è che qui lo sai. In genere, nella vita vera, nessuno te lo dice. Ma sei sotto esame di continuo. Di quelli che ti annusano prima di diventarti amici, dei datori di lavoro che ti studiano di continuo nel periodo di prova, dei genitori della tua ragazza appena lei ti presenta, delle commesse dei negozi del centro che ti misurano l'opulenza del portafoglio. Da quel loro irreversibile giudizio dipenderà l'intensità della gentilezza con cui ti serviranno. Tutto è relativo, ma è difficile spiegare. La vita è disseminata di trucchi valutativi. A scuola no, tu lo sai che ti giudicano. E allora viva Alice che nel suo mondo delle Meraviglie ha ucciso il Drago Ciciarampa ed è cresciuta per sempre.
"Mi spieghi perchè sei sempre troppo bassa o troppo alta?", dice Il Cappellaio Matto ad Alice nella versione pirotecnica del grande Burton. Alice sembra non andare mai bene, finché non sarà lei a decidere come deve essere. Solo allora avrà la statura giusta e nessuno le dirà più nulla a riguardo. Il film è grandioso, soprattutto per le giovani donne, indica la strada impervia della crescita. Al centro del film l'immaginifico potere della fantasia e il decidere di imparare a fare le cose per se stesse. Nulla è facile nella crescita, non ci sono sconti, ancora meno per le femmine. Ognuno deve incontrare prima o poi i suoi draghi, è inevitabile. Sai che prima o poi li dovrai affrontare. Oggi un esame, domani una fidanzata a cui non riesci a dire di no, la paura del buio o di una stanza chiusa. E poi ancora, la ricerca della propria autenticità, una "moltezza" che Alice ha perso per strada e che deve ritrovare se vuole crescere davvero.
"La scelta è solo tua, non si vive per accontentare gli altri", spiega paziente la Regina Bianca ad Alice. E dunque deve essere lei a scegliere, a volere affrontare ed uccidere il Drago. Non può essere la semplice nemesi indicata dal Memorium (un magico scritto che descrive la rivincita della Regina Bianca sulla Regina Rossa) a far decidere Alice che è pronta ad uccidere. E' solo lei infatti che, al termine della sua iniziazione di crescita, sarà in grado di farlo. Solo allora dunque sarà pronta, perché ha capito che a volte occorre fare anche quello che va contro i principi che ci siamo o ci hanno dato. E riguadagnare se stessi.
Il film indica in modo preciso anche gli strumenti per crescere: fantasia e creatività, trasgressione dall'ordine costituito imparando a porsi domande, la logica e la razionalità come metodologia di pensiero, anche se onirico.
E non a caso la Regina Bianca è a capo di un esercito di pezzi scacchistici, mentre quella Rossa comanda un banale e caotico mazzo di carte. Vince il gioco degli scacchi contro il caso cieco e fallace del fare senza il senso convincente di un mazzo di carte. Non per fatalità il Bianco è il primo a muovere sulla scacchiera. E' la regola del gioco. La ragione vince il caos e in qualche modo gli conferisce una forma nuova a partire dalla prima mossa appunto, che è quella del pensiero.
"Ho una malattia si chiama fantasia: porta quasi all'eresia è considerata pazzia…" confida il Cappellaio Matto turbato ad Alice. Ma lei non si spaventa e ricorda come anche lei ebbe quel dubbio da bambina. Alice da piccola in ansia dopo il suo ricorrente incubo notturno domandava al padre: "Credi che io sia diventata matta?"
"Temo di sì,- le rispondeva il papà - sei pazza, folle, assolutamente svitata, hai perso la zucca... ma ti svelo un segreto: tutti i migliori sono matti!".
Il seme di una lucida follia si è acceso ormai per sempre in Alice. E diventa necessità esistenziale andare oltre il limite che la spinge, tornata nella vita vera ormai donna cresciuta e consapevole, a lasciare il fidanzato e a intraprendere un viaggio per mare verso mete inesplorate.
Vorrei tanto che le mie ragazze fossero un po' più come Alice e meno bimbeminkia, come a volte purtroppo vedo che si ostinano a essere.

ps. Nel testo riferisco di una pergamena magica che ho, erroneamente, chiamato Memorium. Nel film invece Burton lo chiama Oraculum. Certi lapsus risultano in ogni caso interessanti.

11 giugno 2010

CI APPARTIENE

Lo scorpione rappresenta l'acqua primordiale, origine della nascita di ogni cosa, il regno degli Inferi e la ferita cosmica della morte. E' una costellazione di origine babilonese, smembrata nel 46 a.C. da Giulio Cesare per fare posto al segno della Bilancia. Infatti, le stelle che formano la costellazione di Libra erano anticamente le chele dello Scorpione.
Lo Scorpione è una costellazione associata alla morte apparente del Sole durante i mesi invernali. Simboleggia il ritorno allo stato primordiale attraverso un percorso di sofferenza e lacerazione interiore. Si tratta di un regresso della dimensione del caos originario in attesa della rinascita primaverile. Nulla è per caso. Infatti, i riti in onore dei defunti cadono proprio in questo periodo dell'anno. Astrologicamente questo segno è posto sotto l'influsso notturno di Marte e di Plutone. La corrispondenza con il dio degli Inferi è sottolineata anche dalla posizione di Antares, la sua stella che più di ogni altra risplende. Questa stella luminosissima è nota come "Cuore dello Scorpione" e soprattutto "Stella degli Spiriti", alle estremità meridionali della Via Lattea, proprio sopra l'eclittica (il cammino apparente che il Sole traccia nel cielo durante l'anno).
I cabalistici associano lo Scorpione al XIII arcano dei tarocchi, la Morte, simbolo di trasformazione e rinascita. Lo Scorpione corrisponde al pieno autunno, alla virilità e all'elemento acqua. Sono posti sotto la sua protezione l'Islam e il mondo arabo. Si tratta di un accostamento purtroppo legato al fatto che lo scorpione, simbolo del Maligno, ai tempi delle crociate fu collegato agli infedeli e ai nemici della fede, e quindi all'Islam. Il colore dello scorpione è l'amaranto.
Nel Mito greco, lo Scorpione è la trasposizione celeste dello scorpione che uccise il cacciatore Orione. Infatti Orione cercò di violentare Artemide, la dea della caccia, sicchè lei mandò lo scorpione ad ucciderlo, pungendolo al tallone. Orione era un compagno di caccia di Artemide. Le versioni della leggenda sono diverse. Secondo alcune fu ucciso dalla dea, secondo altre da uno scorpione inviato da Gea (nella mitologia greca è il Titano femmina che impersona la Terra, identificata nella Dea Romana Tellure).
Alcune storie riportano che Orione tentò di stuprare violentemente una delle ninfe di Artemide che lo uccise per punirlo, altre che tentò di stuprare la dea stessa. Il dio agì di nascosto, perché sapeva che la dea desiderava rimanere vergine, ma lui desiderava moltissimo possederla. La dea lo uccise per difendersi. Secondo Igino Astronomo (che a sua volta cita il poeta Istro) Artemide era innamorata di Orione e voleva sposarlo, ma lo uccise perché ingannata dal fratello Apollo che intendeva difendere la verginità della sorella.
Sembra che questo sia uno dei miti greci più antichi e che la sua origine potrebbe derivare più semplicemente dalla sua posizione nel cielo, dato che le due costellazioni sono sistemate una di fronte all'altra. Infatti, quando Orione tramonta, il suo conquistatore, lo Scorpione, sorge.

10 giugno 2010

MINCHIA PANICO PAURA

"Io mi ricordo, quattro ragazzi con la chitarra
e un pianoforte sulla spalla.
Come pini di Roma, la vita non li spezza..."
E' tempo di esami. Le tesine sono pronte, i ragazzi si sono preparati come hanno potuto, con le loro forze. Spesso inadeguati, ma pronti alla sfida che si pone. Costruisco giudizi d'acciaio per presentarli al meglio a una commissione che non li conosce e che non penso voglia prolungare l'esperienza più del dovuto. Li aiuto come posso, li sostengo, consiglio trucchi contro l'ansia montante di questi giorni prima di qualcosa che non sanno e che nemmeno io so. Non rammento l'ultima volta che ho portato una classe agli esami. Ricordi lontani di scuole private. Forse alla fine degli anni '80, da qualche parte.
E' bello osservare come tutto si ricompone nel momento del bisogno. Nella mente mi appare una scacchiera con pezzi schierati per la battaglia. Come per un incantesimo, i ragazzi si sono trasformati magicamente in specie di samurai, in attesa dell'attacco del nemico. Di rado il samurai attacca per primo. Ma è pronto a vendere cara la pelle. Sulla mia scacchiera mentale i miei alunni non sono i pedoni, ma i pezzi nobili: cavalli, alfieri, torri e ovviamente regine. Il re, se c'è, ha funzione di contorno in questa scuola a segregazione femminile. Qui si producono estetiste e parrucchiere per un mercato vorace che in modo ossessivo chiede cure dei corpi sempre più raffinate e costose.
Ed è paradossale come queste giovani, spesso proveneienti da famiglie umili, con alle spalle infanzie disastrate e miserie intellettuali imbarazzanti, metteranno le mani su donne patrizie, abitanti palazzi di cristallo. Le mie giovani donne nemmeno riescono a immaginare le vite e i luoghi delle loro clienti. Eppure saranno lì, a massaggiare con perizia e impegno corpi sconosciuti, a togliere pelurie inconsistenti, a trattare visi per purificare, alleviare, lenire dolori inesistenti.
Fulmineo, inaspettato, devastante e ineluttabile arriva lo scacco al re. Certo, dopo una partita sanguinosa. Ma comunque è scacco matto.
"Notte prima degli esami, notte di polizia
certo qualcuno te lo sei portato via.
Notte di mamma e di papà col biberon in mano,
notte di nonno alla finestra, ma questa notte è ancora nostra..."

LA CITTA' SA ANCORA STUPIRTI

Vengo a scuola. Solito percorso per le vie del centro. Ormai le classi sono pressocchè svuotate. L'anno scolastico è scaduto. Impressioni di smobilitazione per partenza vacanze. Chi ha l'esame è in fibrillazione, ma si perde nel mare ormai tranquillo di una scuola evacuata dai più.
Sono le 7.10 circa. Davanti alle vetrine chiuse di negozi alla moda staziona illogico un mimo. Vestito interamente di una quasi seta azzurro cielo, viso ricoperto da biacca teatrale. Enigmatico, algebrico come una sfinge. Ma ha una smorfia di tristezza sul viso incomprensibile. E sta lì, forse su un piedistallo che non vedo, ma che immagino sotto un'altezza che non può essere umana. Lo cerco con gli occhi e faccio un cenno di saluto. Ma lui è perso in personalissimi pensieri e non mi guarda. Parla tra sè e sè. Intuisco qualcosa di triste. Scatta il verde e devo andare.

Noblesa de coratge no la demans a la boca, car tota hora no diu veritat; ni no la demans a honorats vestiments, car sots alcun honrat mantell està vil cor e flac on ha malvestat e engan. Ni noblea de coratge no la demans a cavall, car no’t porà respondre; ni no demans noble cor a guarniments ni arnès, car dins los grans guarniments pot ésser volpei cor e malvat. On, si vols trobar nobilitat de coratge, demana-la a fe, esperança, caritat, justìcia, fortitudo, leialtat, e a les altres virtuts, car en quelle està noblea de coratge; e par aquelles, noble cor de Cavaller se defèn a malvestat e a engan e als enemics de cavalleria.
(Raimondo Lullo, Libro dell'ordine della cavalleria,I ed.,Torino, ed. Arktos 1983)


NdT. (traduzione dal catalano scritto tra il 1274 e il 1276).
La nobiltà di cuore non chiederla alle labbra: non sempre esse dicono la verità; nè al ricco vestito, poiché, sotto un'onorevole veste, può nascondersi un cuore vile e debole nel quale alberga la perfidia; nè al cavallo, che non potrà risponderti; nè alle armi e agli ornamenti poiché anch'essi possono coprire un cuore bugiardo e cattivo.
Se vuoi trovare nobiltà d'animo chiedilo alla fede, alla speranza, alla carità, alla giustizia, alla fortezza, alla lealtà ed alle altre virtù, poiché in esse consiste la vera nobiltà di cuore e con esse il Cavaliere si difende dal male, dall'inganno e dai nemici della sua Milizia.

9 giugno 2010

IL PEGGIO DI NOI: UNA PARTE

L'apparecchio televisivo è deceduto. Dopo circa 20 anni di onorato servizio mi ha mollato di botto. Immediata sostizione effettuata in centro commerciale. Circa 70 schermi di diverse dimensioni rinviavano la stessa partita di qualcuno contro qualcun altro. C'è una faccia sofferente moltiplicata per settanta. Sudata, con una smorfia di dolore, mangia erba di un campo di calcio da qualche parte nel mondo. Acquisto velocemente qualcosa di digitale che nulla ha a che fare con il vecchio tubo catodico che ora mi invade il terrazzo. E' scoppiata una calura estiva inattesa. Vagheggio l'inverno.
Nello stesso centro d'acquisto mi nutro di cose fritte da un rivenditore esotico. Ho nausea. Fumo una sigaretta fuori dall'area pressurizzata. Incontro, anche lei fumante, una commessa di altro negozio biologico; è preoccupata per l'estinzione di un mutuo non voluto. Si è lasciata con il ragazzo. Ormai li lega solo quella pendenza economica. Torno dentro, prendo il mio nuovo apparecchio televisivo e torno a casa.
Mi aspetta il sensei per nuovi allenamenti. Mi sento come al primo giorno di scuola. Ed è un bene che chi in qualche modo insegna, si metta a sua volta in condizioni di discente. Meglio di discepolo, con umiltà e cura di ciò che si va ad apprendere. Impegnativa l'umiltà. Occorre sempre sperimentare i diversi punti di vista. E occorre crescere. Sempre.
Ritrovo a fatica cintura e un pezzo del karategi. Fortuna vuole che siano i pantaloni. Mi avvio al dojo. Siamo in quattro. Incomincio a impegnare il corpo. Faccio fatica. Kata, forme, uso delle armi. Il sensei mi prova gli addominali e le gambe. Rifaccio fatica. Mi fornisce di nunciaku. Chi è stato bambino negli anni '60 si ricorda le clic-clac. Oggetto infernale con cui ci martoriavamo inutilmente polsi e avambracci. Lividi a piovere. Uguale. Chiedo di fermarmi. Il sensei acconsente. Mi rendo conto di essere la pubblicità al contrario di me stesso.
E' il momento dei bō. Vorrei tornare sul tatami con quell'arma che mi ha sempre affascinato. Il bastone dei contadini di Okinawa trasformato in arma mortale. In spregio all'ordinanza imperiale che voleva l'uso delle armi ad esclusivo uso dell'esercito dominatore. I contadini hanno iniziato a difendersi e a combattere con gli attrezzi del loro lavoro. Il bō era il bastone con cui i contadini trasportavano i secchi d'acqua. I movimenti prodotti dall'utilizzo del bō nelle arti marziali compongono spesso cerchi, semicerchi e sfere, difendendo l'utilizzatore dagli avversari da ogni lato, tenendoli lontani e permettendo di attaccarli senza che possano avvicinarsi. Il sensei mi nega il bō. Dice che nelle condizioni in cui sono potrei fare molto male a qualcuno. Anche a me stesso, visto che sono visibilmente fuori allenamento. Mi chiede di continuare con il nunchaku. E' un'arma tradizionale, diffusa in alcuni paesi dell'Asia Orientale, costituita da due corti bastoni uniti mediante una breve catena o corda. Viene anche utilizzata in diverse arti marziali come il Karate-do Shotokan.
La storia del nunchaku è molto incerta e molti dei racconti che lo riguardano non hanno trovato conferme ufficiali. Si dice che nel VII secolo la dinastia cinese Zui abbia inventato un'arma partendo dall'idea del morso dei cavalli. Quest'arma, chiamata in giapponese nunchakun, era formata da tre bastoni uniti insieme mediante una catena. Nel corso dei secoli l'arma venne modificata in un bastone snodato a due pezzi chiamato shuāng jié gùn, uno strumento agricolo usato per trebbiare grano e riso. Sicchè lo strumento è diventato allo stesso tempo un'arma non convenzionale semplice e di facile reperibilità, usata da contadini per autodifesa.
Il corpo frana sul tatami. Non reggo lo sforzo, anche se ormai la lezione è alla fine. Il sensei mi guida in un ultimo bunkai. I bunkai sono normalmente eseguiti nel dojo con uno o più avversari che danno una dimostrazione del significato delle tecniche eseguite in un kata. Oppure si mette in pratica un attacco predefinito cui occorre rispondere con un determinato kata. In questo modo l'allievo comprende i vari movimenti di cui è composto il kata e migliora la propria tecnica. Sicchè si impara a valutare i tempi, aggiustare le distanze e adattare la tecnica alle dimensioni dell'avversario.
Torno ad imparare a uccidere. Non l'avevo completamente dimenticato e mi sento a casa.
"Sto trafficando, beato me, sotto un fruscio di taffetà e mi domando in fondo se mentre lei splende sul sofà d´inverno, d´inverno non sia anche più intelligente...".

7 giugno 2010

SIAMO TUTTI COMBATTENTI

Considera il tuo dharma: non puoi esitare. Per uno kshatriya, difatti, secondo la sacra legge del suo stato, non v'è alcun bene superiore alla battaglia. La ricompensa che essa ti offre è lo schiudersi del regno dei cieli. Felici, o figlio di Prtha, i guerrieri che giungono a un tale combattimento.
(Esergo tratto dal saggio introduttivo di Franco Cardini al testo di Raimondo Lullo "Libro dell'ordine della cavalleria" ed. Arktos 1994)

Il dharma è la legge la "norma" che sostiene l'universo; lo kshatriya è il membro della casta guerriera; il Prtha è la madre degli eroi del Mahābhārata.
Il Mahābhārata "La grande storia dei figli di Bharata", a volte chiamato semplicemente Bhārata, è uno dei più grandi poemi epici della mitologia indù, insieme al Rāmāyana, oltre ad uno dei testi sacri più importanti della religione indù. Nella maggiore edizione pervenuta ai giorni nostri, il Mahābhārata si dipana in circa 110.000 strofe (corrispondenti a quattro volte la Bibbia, o a sette volte Iliade e Odissea messe insieme, divise in 18 libri, detti parva, più un'appendice, l'Harivamśa) che ne fanno l'opera più imponente non solo della letteratura indiana, ma dell'intera letteratura mondiale.
Il testo sacro, tra le cose, insiste sulla guerra come momento qualificante di un cammino spirituale (uno dei possibili) allo stesso modo in cui fanno molte altre tradizioni e molte altre culture.
Nella fondazione della dottrina buddhista, ad esempio, l'asceta è detto significatamente combattente.

APPUNTO SCIOLTO DI UN PROF QUALSIASI

Ora buca. Ultima settimana. Nessuno ci sta più dentro. Ho bisogno di fumare. Raggiungo il parcheggio antistante la scuola. Vago tra le macchine e aspiro ampie volute di fumo. Nella solita aiuola abbandonata a se stessa svetta impertinente il gambo di un papavero. Una sola pianta. Un solo fiore. In verità c'è un altro fiore più piccolo, accanto. Non ce l'ha fatta. Sta visibilmente morendo. Ma l'altro no. E' lì a offrire la sua corolla inconsistente al vento fatuo di una mattina ormai inoltrata. Il cielo è coperto. Ondeggia debolmente, ma resiste. Domani forse non ci sarà più. Non oso coglierlo, come ho fatto un giorno con analogo fiore di camomilla. Si sa che fine fanno i papaveri. Impossibile formarne un serto. Muoiono all'istante. Mi sento un papavero. Molti di noi lo sono inconsapevolmente. Fragili, ma con la presunzione di farcela, anche soli. Ci ammantiamo di una prosopopea che odora di una boria arrogante che solo l'uomo è in grado di elaborare. Ma mentre ci accorgiamo della nostra finitezza, siamo già in altra dimensione. Spesso si muore. Sono questi i momenti in cui considero l'ipotesi che esista un creatore o una creatrice. Ma non ne sono sicuro. Resta l'ipotesi.
Torno dai papaveri che ho lasciato in aula.

INSOSPETTABILE RAVE

Circa dieci anni fa sono stato padrino di battesimo di Sveva, di cui ho detto in qualche post precedente. Allora mi stupii. Non capivo la scelta dei miei amici nel volermi in quel contesto vagamente mistico che sono i battesimi, appunto. Non mi hanno lasciato scelta e mi sono prestato alla funzione. In effetti, con i miei amici prima e con Sveva e suo fratello poi, si è creato negli anni un legame speciale fatto di pochi ma densi incontri di crescita reciproca. A volte noi adulti percepiamo il fluire del tempo riflettendoci nello sviluppo di un bambino. Anche se non nostro. In quegli istanti ci vediamo i vecchi che siamo e percepiamo l'inappellabilità delle occasioni non raccolte. Per il resto è un bello stare. Giochi e risate come tu adulto non sei più abituato a fare. E si torna bambini.
Sveva è stata iscritta all'oratorio estivo e i miei amici, sull'onda del ritrovo di cui ho detto, mi hanno coinvolto. Di nuovo. Mi faccio spesso coinvolgere, mi piace che qualcuno mi trascini in cose che da solo non affronterei. Per ignavia probabilmente. Una debole forza morale e una certa mancanza di volontà sono tra le mie cifre segrete. E comunque vado.
Due giorni di salamelle, cori gospel, patatine fritte, bancarelle di tatoo, insegnamenti di cavalleria medievale, duelli con armi, karaoke. E birrra e vino a condire il tutto. Le facce dei cinquantenni, ormai molti dotati di prole, si affacciano anche in questa occasione. Sembra un rave, ma non si può dire. La musica è a palla, mancano solo gli stupefacenti per rendere la notte ipnotica. Per il resto mi pare ci sia tutto. E di nuovo mi immergo. Ritrovo alunni di mia madre. Il suo ricordo viene spesso rievocato da bocche diverse. Tutte nostalgiche di una severità di cui hanno capito il senso tardivo. Tutti riconoscenti, a dire di un tesoro prezioso che porteranno sempre con sè. Ognuno con le proprie parole, a volte con il silenzio.
In chiesa parte una specie di happening di musica tra il sacro e il profano. Testi di Mozart, Madre Teresa di Calcutta (sì ha scritto anche canzoni), Perosi, Abba in un intreccio indescrivibile di emozioni polifoniche. Sgorga lacrima furtiva sul finale dei mitici Abba appunto "Thank you for the music". La canzone mi si attacca alle budella e non mi molla. Il prete scatta foto.
I'm nothing special, in fact I'm a bit of a bore
If I tell a joke, you've probably heard it before
(NdT. Non sono speciale, infatti sono un po' noiosa
se racconto una barzelletta probabilmente l'hai già sentita)

A VOLTE RITORNANO

Ognuno nel nostro Pese, soprattutto quelli nati tra gli anni '50 e '60 hanno un passato di oratorio. In particolare, in certe regioni del Nord è una tradizione che non si è persa mai. Anche solo per un attimo della propria vita, magari in modo tangente, tutti siamo passati all'ombra di qualche campanile. La maggior parte di noi poi ha preso strade diverse. Chi ha visto o sentito i Diari recitati da Marco Paolini sa di cosa parlo.
Ma c'è un senso delle cose che a volte ritornano. E allora basta un cinquantenne annoiato, un po' deluso dalla vita che si mette a costruire una catena per riannodare dei fili. E i fili si ritrovano circa 30 anni dopo all'ombra di quello stesso campanile.
Sono andato anch'io, mio malgrado. Non amo le adunanze, i ritrovi. Quel senso di storia azzerata che ammanta le feste degli ex liceali. Infatti a quei ritrovi non sono mai andato. Ma qui qualcosa mi ha trascinato. Pranzavo il mio cibo domenicale. Un amico mi ha telefonato e mi ha detto di andare che questo e quello mi cercavano. Ho finito in fretta e mi sono avviato allo scantinato adibito all'occasione. Non sono entrato subito. Ho fumato una sigaretta prima di tuffarmi un un mare emotivo di cui avevo un vago senso di terrore. Poi gli incontri. Sostanzialmente di due tipi: "Non ci credo, Enzo...sei uguale" ,oppure qualcuno che ti viene incontro con l'aria di averti visto il giorno prima e tu che gli dici: "Ti abbraccio anch'io...ma chi cazzo sei?".
Insomma storie, fatiche, immensi vuoti di vite strapazzate da altri. Un bagno di emozioni indescrivibile. Io che non ho una fisicità molto esuberante, ho subito assalti emotivi a tratti insostenibili. Ma ci sono stato dentro. Come un bagno caldo senza bolle di sapone.

4 giugno 2010

NESSUNO INSEGNA

I bambini sono il futuro che verrà. Lo sappiamo tutti, ma facciamo finta che quel tempo non verrà mai. Li culliamo in un'infanzia dilatata oltremisura, tra zucchero filato, consolle tecnologiche e viaggi esotici in paesi che nemmeno ricorderanno di avere visitato. Spesso i bambini sono il coronamento sociale di famiglie inesistenti. Il quadretto deve comprendere prole. Quindi ci si adopera per fare razza.
Nessuno insegna a questi figli quasi nulla di necessario. Molto invece si trasmette di comportamenti formali per un'accettabilità sociale su cui si fantastica di continuo. E allora li vestiamo con prestigiose griffe, li curiamo con l'omeopatia, li proteggiamo con creme solari ad alto schermo. Li iscriviamo a corsi di ogni tipo, perché nella vita l'inglese serve, bisogna saper nuotare, saper tirare di scherma e sfruttare quel talento musicale inevitabile concentrato sullo studio del piano o del violino. Quasi nessuno suona la batteria o i bonghi. Nessuno insegna come la noia possa essere un valore.
Nessuno insegna cos'è l'amore, l'affetto e l'amiciza vera. Nessuno produce una qualche forma di educazione emotiva. Forse è lo stesso buio vuoto delle difficoltà degli adulti, che si ostinano a riprodurre la medesima disperazione nelle nuove generazioni.
Nessuno insegna a canalizzare la rabbia che sappiamo far parte di ognuno. Nessuno insegna ai bambini maschi a non picchiare le bambine, a non mettersi due contro uno, a non formare branchi d'attacco contro inesistenti nemici. Nessuno insegna che il maschio è generalmente più forte della femmina; a partire da questo banale concetto di supremazia esclusivamente fisica, nessuno insegna che la bambina poi la donna va protetta e rispettata. Nessuno insegna l'amore per l'ambiente e la natura tutta, ragni e vespe compresi.
Nessuno insegna infine la presenza della magia, che è l'irrompere del mistero nella vita di ciascuno. Nessuno insegna i cammini degli elfi e delle fate nei boschi. Nessuno insegna ad abbracciare un albero. Nessuno sa indicare una rotta. Non perché si debba seguire, ma perchè almeno si possa scorgere un'idea da un'altra strada intrapresa per caso. O il cui senso è segreto e tale deve restare.

3 giugno 2010

CRIMIINI E MISFATTI

Accadono cose che rinviano a un mondo sbagliato. Violento e crudele. Assisto quotidianamente nella mia scuola a scene di ordianaria cattiveria e ferocia. Ma mi rendo conto che si tratta di istanze presenti ovunque e che nascono prima di arrivare da noi. Già a partire dall'infanzia, per molti crudele, i bambini devono costruire e affilare armi per la sopravvivenza, sociale ed emotiva. Sempre figlia di amici 10 anni.
Carattere ribelle ed esuberante per sua natura, accetta volentieri la sfida, non si tira mai indietro davanti alla rissa sia fisica che verbale. Bell'esempio di bambina del terzo millennio. Non c'è più spazio per le fate, se mai c'è stato. Oggi nuove guerriere si affacciano al mondo. Nascono già con il coltello tra i denti. E forse è un bene. Mi racconta il mio amico, padre della bimba, che ieri l'hanno chiamato con urgenza da scuola. La figlia si era ferita gravemente con un vetro. Stavano portandola al pronto soccorso di noto ospedale cittadino. Il mio amico accorre e accompagna la bambina in ambulanza.
La cronaca degli eventi. La classe è esuberante, giocano male e non sono sorvegliati da nessuno. Maestre distratte e dissennate passano il tempo del gioco dei loro alunni al cellulare. Sveva, così la chiamerò d'ora in poi, giocava con alcune amiche in classe. A un certo punto nell'antiaula un gruppo di maschi sottrae a Sveva cartella e astuccio. E' un attimo. Tutto carambola fuori dalla finestra in un disordine cattivo e inevitabile. Sveva non si scompone. Conosce la sua classe. Esce e va a raccogliere le sue cose, mentre dalla finestra i pensatori la sbeffeggiano. Vuole rientrare, ma i maschi la chiudono fuori. La porta ha dei vetri, sostenuti a quadrato da listelli di legno. Sveva bussa più volte. Nessuno la fa entrare. I maschi continuano a ridere. Sveva non ci pensa due volte. Spacca il vetro a mano nuda e apre la porta dalla maniglia dell'interno. Nel fare questa mossa sventata, si taglia la mano, il polso e quasi le ferite raggiungono il tendine del pollice. Sveva è mancina. Il sangue è dappertutto. La maestra non si vede. Quando la situazione diventa tarantiniana, appare in un finto panico e dice: "Ma qui son tutti pazzi...Adesso ci mettiamo anche a rompere i vetri. Ma dove andremo a finire? Per fortuna che l'anno sta finenedo".
Sveva intanto va a sciacquarsi il braccio e la mano sanguinanti alla fontana antistante la scuola, che si trova inaspettatamente in un parco cittadino. Viene soccorsa da una pattuglia di polizia che fa spesso la ronda nel quartiere. Viene chiamata l'ambulanza, il padre, la madre. I compagni si eclissano come inghiottiti da una vergogna intempestiva. Sveva torna a casa dall'ospedale alle sei di sera. Qualche compagna la chiama per sentire come sta. Nessun maschio la cerca nè le chiede scusa. Solo Diego, un ragazzo difficile in affido le telefona preoccupato. Sveva è raggiante. A chi telefona fa la cronaca dell'accaduto. Le piace parlare e raccontare storie. Domani sarà una star. Chiede il permesso ai genitori di far firmare le bende che avvolgono il braccio.

FESTA AL PARCO

Festa di compleanno in un parco cittadino. Sono sempre invitato da qualche amico solerte che sta tendando invano di trovarmi una compagna. Vado volentieri. Faccio finta di divertirmi, incrocio sguardi, vedo gente, faccio cose. A volte è un bene uscire dai confini che ci imponiamo, con una solitudine non sempre ricercata. Bella energia, bambini vocianti e giocanti in libertà. Il festeggiato in vestiti informali si diverte un mondo. Guance rosse come mele e ginocchia sbucciate da cadute non dolorose. Compie otto anni. I compagni di classe su un vassoio di torta usato gli hanno scritto un augurio: " Auguri Luciano, hai 80 anni ormai sei vecchio ma ti vogliamo bene lo stesso". A seguire le firme fantasiose e incerte di coscritti felici. Si mangia anguria, si chiacchiera con uomini e donne. Ognuno un mondo. C'è anche chi piega volentieri la propria usuale snobberia per l'occasione. Sul finire dell'evento appare non invitata Adriana, un noto transessuale della zona. Si presenta in una delle sue mìse migliori. Calze a rete, tacco pericoloso sotto sandali rosso fuoco, canotta come minigonna, parrucca bianca portata a guisa di coda di cavallo, occhiali da diva del cinema muto e rossetto rosso fiamma. A completo del completo guanti neri lunghi fino al gomito. Si ferma, incomincia a chiacchierare. E' un attimo cinematografico quello a cui assisto. Adriana in mezzo ai bambini che giocano e genitori perplessi che fingono di continuare con naturalezza discorsi intrapresi. Parla dei suoi figli, di come uno dei due assomigli a lui e l'altro alla madre. Attacca bottone con me. Trova una porta aperta. Cominciamo a parlare. Racconta i suoi guai. Si intuisce uno squilibrio psichico senza ritorno. La festa è al termine. Mi attende un massaggio terapeutico e lascio la compagnia. Adriano mi confida che preferisce essere chiamato Bernadette, perché ha visto la Madonna.
All'uscita del parco ci stringiamo la mano. Si ripromette di farmi avere l'indirizzo dello studio di ripresa presso cui dice che lavora. Lo ringrazio e mi avvio al mio appuntamento.

1 giugno 2010

IL VOLO DELLA GRU BIANCA

Il Matsumura Shorin Ryu è lo stile di Karate codificato più antico, da cui sono nate tutte le scuole della corrente Shuri Te (Kobayashi Shorin Ryu - Matsubayashi Shorin Ryu - Shotokan - Shito Ryu - Wado Ryu e altre ancora).
La particolarità di questo stile è che è sempre stato uno stile di famiglia, ossia non insegnato al di fuori della famiglia Matsumura fino ai primi anni '50.
Molta enfasi viene data allo studio dell'Hakutsuru, lo stile della Gru Bianca. In questa particolare arte marziale, i movimenti morbidi e di ricerca dell'energia interna "Ki" (CHI in cinese) vengono abbinati allo studio del Kyusho Jutsu (studio dei punti vitali), del Dim Mak (tocco della morte) e del Tuite (leve articolari e proiezioni).
Sono un allievo che studia lo stile della Gru Bianca. O meglio lo ero. Mi sono allenato quattro anni, con risultati soddisfacenti. Ho imparato a uccidere con una sola mossa, a fuggire dall'imboscata, ad evitare agguati e a contrastare due aggressori. Il corpo mi ha assecondato. Poi altre fatiche mi hanno impegnato altrove. Ho lasciato. Ma lo spirito della Gru Bianca mi ha seguito. Penso che a breve ricomincerò gli allenamenti. Sensei permettendo.
Ieri a lezione ho applicato tecniche di combattimento. Era necessario. Le ragazze non se ne sono nemmeno accorte.Troppa violenza non repressa e incontrollata serpeggiava tra le file scomposte dei banchi. In tre si sporgevano pericolosamente da una finestra di ambiente condizionato. Alla fine qualcuno doveva chiuderla. Hanno fatto resistenza. Con un'unica mossa di leva a potenza controllata di una mano l'ho chiusa lentamente, nonostante in tre premessero contro. Quel tempo è sembrato infinito. All'invito ripetuto di spostarsi, continuavano a stare lì. La sensazione era quella di schiacciare tre noci in un colpo solo. Alla fine, per non essere stritolate lentamente, si sono spostate. Ho chiuso infine la finestra. Non ho fatto male a nessuno. E non ho toccato nessuno. Ho agito solo sulla finestra. Le allieve incredule. A ridosso del fatto, una ragazza mi sfida a braccio di ferro, ma con la sinistra. Mi presto alla tenzone. La batto, dopo breve resistenza. Mi chiede di nuovo la sfida con la destra. Sono stremato e svuotato. Dopo breve resistenza, l'allieva mi fa cedere. La guardo negli occhi e le dico: "Non saprai mai se ti ho fatto vincere o se mi hai battuto per davvero".
Riprendo il libro e leggo una poesia qualunque.