30 agosto 2010

4.47a.m.

Finché non ricomincia la scuola, l'attento lettore porti pazienza. Trattasi di deriva bucolico montana. Chi non nutre interesse per l'accento del bosco o per le descrizioni d'ambiente, ritorni dopo l'estate. Nessuno si senta in obbligo alla lettura. Se posso, preferisco non compiacere alcuno. Non faccio patti e non rincorro nessuno. Non l'ho mai fatto, forse si dovrebbe. Fa parte, credo, della mia ignavia.
In ogni caso, la notte in montagna è stupefacente. Il sonno non mi accompagna, così sto con il buio. In realtà è un blu profondo. Dalla mia finestra a losanga aperta per il fumo non vedo la luna. L'astro sta dietro la casa, posso intuirlo. Ma il suo giallo illumina i monti, ne vedo l'ombra chiara sui prati sottostanti. Si crea un chiaroscuro seducente, tra l'ombra giallognola degli alberi del limitare del bosco e le opacità più scure degli alberi e delle montagne circostanti. Il verde scuro dei fianchi delle montagne diventa blu oltremare profondissimo, meno blu gli alberi. Quel colore segreto permea tutte le cose. Sto su un altopiano oltre i 1000m di quota. Intorno ampie faggete e pini radi silvestri ammantano montagne poco conosciute. Davanti alla casa che mi ospita resiste un pascolo. A breve, sarà abitato da mandria d'alpeggio. Razza particolare e tenace, resistente al freddo delle notti fino alla festività dei morti.
La notte comincia da lontano. Tramontato il sole, si affacciano poco dopo stelle infinite. Non le conosco, sicché paiono più fascinose e brillanti. Un selvatico torrente poco lontano ritorna rumore d'acqua rotta da sassi e un vento fresco fa stormire frasche sparse in disordine intorno. Uccelli notturni si rinviano versi da alberi lontani. La sera, due piccoli pipistrelli scartano sulla mia testa. Passano radi il prato in cerca d'insetti. Mangiano al volo e ricominciano di nuovo la loro caccia cieca. Nel buio brulica vita e si può quasi ascoltare la linfa che scorre. Dalle radici ai rami, negli insetti, lungo gli steli nei prati. Chi è spettatore di questo miracolo naturale percepisce un'indefinitezza che comprende tutte le cose. Ci si sente in pace.
Essere sensibili a tratti è gran cosa. Perlopiù impegnativa ed estenuante. Obbliga a vestiti sociali d'acciaio. A tener pronte armi difensive sempre affilate, a porre paletti invalicabili. Solo in questo modo si custodisce se stessi o quello che ne resta. Una natura sensibile è penetrabile in ogni momento da qualunque cosa e da chiunque. Un gesto, uno sguardo, un tono di voce sbagliato, arrivano come saette che entrano senza scampo. Di solito sono guai. Ma questa è un'altra storia.

- Notte stellata, Vincent Van Gogh, 1889 - Museum of Modern Art New York

24 agosto 2010

SCRIVERE

Sono un uomo fortunato. Ho tutto ciò che voglio. Certo, non ho grandi desideri. Tetto sulla testa, abiti caldi con cui ripararmi, scarpe adatte, cibo se ho fame. Acqua si trova sempre. Altra cosa sono le necessità, i bisogni. Per qualche insano motivo ho bisogno di scrivere. I potenti mezzi tecnologici moderni mi offrono questa opportunità, una volta insperata. In anni passati la scrittura la riservavo a noiosi temi scolastici o a fogli privati. Talvolta lettere ad amici. La scrittura, o meglio il bisogno di esprimermi con annotazioni personali, mi accompagna da che io abbia ricordi. Appena incominciai a leggere fu immediato buttar giù pensieri e idee. Ho ritrovato di recente vecchi fogli di compiti elementari. Tenerezza e sbigottimento. Le correzioni degli insegnanti, le note a margine dei testi, le correzioni personali o del maestro. Tutto parte di un cammino di crescita aperto. E' spaesante ritrovarsi uomini fatti ancora in quelle righe. Vento gagliardo; oggi l'America è ricca e produttiva; raccogliere castagne si dice fare la castagnata. Da adulti si ha uno sguardo sulle cose diverso, non necessariamente più maturo. Prediligo mettere su foglio, anche digitale, piuttosto che parlare. Da sempre. Bambino schivo, riservato fino allo spasimo, timido neanche a dirlo. La dimensione della scittura mi apre il varco che non so guadagnarmi nelle relazioni personali, mi compensa. E mi fa stare bene. Le esperienze, la vita in genere, con cicatrici più o meno profonde, segnano tutti. Uomini e cose. Il dire, attraverso la parola scritta, libera, acquieta e dà pace. Chiarifica e compensa. Canalizza energie altrimenti compresse, purifica pensieri confusi, finché non prendono forma sulla carta. La narrazione infatti appartiene a molti, altra cosa è buttar su carta pensieri, emozioni, istanti di vita. Ho la presunzione di saperlo fare, né meglio né peggio di altri. Lo faccio e nel farlo so che mi espongo, mi metto in luce e mi faccio scovare. Non sempre questo mi piace. Ma più forte è la necessità di scrivere che il timore di essere scoperto. Tanto non mi trovate.

CAOS NATURALE

Sto in montagna ormai da alcuni giorni. Bella dimensione. Silenzio, natura, ossigeno, movimento cadenzato e forte. Non mi impegno in escursioni indispensabili. Preferisco sostare a guardare panorami discontinui e capricciosi. L'ambiente mi cattura. Si favoleggia sulla perfezione della natura, sull'ordine che la caratterizzerebbe, secondo alcuni, sull'ineccepibilità delle cause e degli effetti che ne creano il dinamismo. Io credo invece che il mondo naturale sia il trionfo dell'anarchia. E mi ci trovo. Animali, fiori, piante, minerali, acque in varie forme e colori. Tutto in realtà vive una sua vicenda privata, dove il resto si incastra in via del tutto casuale. Mi addentro in un bosco per una breve passeggiata. Pedanti teorie di formiche rosse vanno e vengono ai margini del camminamento. A ridosso, illuminato da un sole radente, la tela di un ragno rifulge come seta stesa ad asciugare. Attende la sua preda. Una formica più stolta delle altre ci cade dentro. E' un attimo. Il pranzo è pronto. Profumo intenso di ciclamini selvatici dà alla testa. In assoluto, credo sia uno degli odori che più mi penetra le fibre, anche muscolari. E' un profumo antico carico di ricordi. In famiglia le chiamavamo ciclaminate. Si andava per boschi, lontano da questi luoghi, e si raccattavano mazzi poderosi di questo fiore all'apparenza insignificante, ma incantevole. La casa profumava per giorni, anche quando i mazzi erano ormai marcescenti. Rimase epica la volta che mi avvicinai inavvertito a un nido di vespe. Mi punsero senza pietà. Anche quella volta piansi calde lacrime. Ma in mano avevo il mio mazzo di ciclamini odorosi e nulla mi sembrò così tragico. Proseguo sul sentiero, fino ad una fonte spontanea. Non è mai secca. Intorno non piove magari da settimane. Ma quel rivolo impenitente continua a sgorgare da non si sa dove. Non ci sono ghiacciai che possano giustificarlo. Vene d'acqua segrete percorrono il ventre della terra e arrivano qui da sempre. Cacciatori con anima hanno posto un boccale per i viandanti stanchi e assetati. Hanno aggiunto vicino alla sorgente anche due rudimentali panchine tagliate alla meno peggio da tronchi locali. Intorno, nel sottobosco, si spandono le foglie dell'elleboro. Tra qualche mese sarà fiorito. Acquilegie pervinca tappezzano il suolo e felci altezzose forniscono ulteriore ombra a campanule e menta selvatica. Il bosco odora sempre di umido. Il microclima che si crea sa di grotta segreta, inaccessibile. Non perché sia difficile arrivarci, ma perché la gente non è interessata. E' in genere altrove. Il bosco ha i suoi rumori, unici e irripetibili. Non conosco il canto degli uccelli, ma molti mi fanno compagnia. Farfalle azzurre appaiono improvvise. Riempiono l'aria con ali leggere. Fulminea compare una libellula scura, in cerca di preda. E' il suo istinto, il suo bisogno che la spinge a divorare carne di insetti ignari. Non c'è violenza alcuna nella natura, ma soddisfacimento di bisogni. Continuamente. L'aggressione, là dove a noi umani pare tale, è invece la spinta alla sopravvivenza, all'istinto di vita che abita tutti gli esseri naturali. E' la conservazione della specie, il portare alla tana cibo per la prole, la sussistenza. Non esistono in natura animali grassi. L'obesità è invenzione umana. L'anarchia naturale che governa gli esseri è ovunque ci si giri. Non c'è ordine nell'eruzione del vulcano, nell'uragano che scoperchia le case, nella tempesta che disfa gli scafi. E' la natura che respira, si scrolla i fastidi procurati da quell'insano essere che vagheggia di governarla. Non ha bisogno di ribellarsi. Segue le sue vie nascoste e ogni tanto ci ricorda che esiste. Ed è più potente di noi.

17 agosto 2010

DORMIRE

Mi sveglio che le ore hanno almeno due numeri. Il mio amico dice che così dovrebbe essere sempre appena è possibile farlo. E' una specie di sogno. Non accade mai. Non ricordo l'ultima volta che ho dormito così tanto. In generale. Il riposo, la sosta, dare tempo al corpo di riassociarsi e generare energia mi ha da sempre dato qualche grattacapo. Anche da bambino. Mi svegliavo di notte, spesso a ridosso di un incubo ricorrente, e mi alzavo. Vagavo indeciso per le stanze, al buio; conoscevo meglio quei luoghi notturni che con la luce spalancata del sole. Sapevo a memoria gli spigoli dei tavoli, le credenze, le sedie. La casa dormiva, io mi aggiravo furtivo come un ladro, senza che nessuno si accorgesse di me. A volte mi sedevo, a ridosso del muro di un corridoio, fuori dalla stanza dei miei genitori. Mio padre russava come un mantice, mia madre aveva un respiro leggero che si mutò all'improvviso poco prima che morisse. Di solito non si sentiva mai quando dormiva. Sembrava non ci fosse. Me ne stavo lì un numero imprecisato di minuti, a volte forse ore. Poi me ne tornavo a letto. Quando l'incubo era proprio insopportabile, cercavo un posto nel letto tra i miei che dormivano. Non se ne accorgevano, ero una specie di canna di bambù leggera e sudaticcia. Me ne stavo lì, finchè il respiro non riprendeva il suo ritmo. Il cuore non era più un piccolo tamburo impazzito, riacquistava il suo senso invisibile nel mio petto. Allora me ne tornavo in camera mia, senza che nessuno si accorgesse di nulla. Avevo all'incirca sei anni e pesavo venti chili. L'invisibilità era la mia specialità. Ero imbattibile nell'esserci senza sembrare, nello scomparire all'improvviso senza che nessuno mi potesse trovare, ricomparivo in posti impensati tra le risa di tutti. La casa non era grande, si sapeva che da qualche parte ero. Mi perdevo come per un gioco che sapevo di successo. Sono riuscito anche a perdermi su nota spiaggia litoranea. Quell'estate afosa e affollata restò il racconto da incubo dei miei genitori per anni. Lì non mi trovavano davvero. Mi reperì una turista pietosa che mi portò alla direzione di uno stabilimento balneare qualunque. Forse c'erano ombrelloni bianchi a strisce rosse. Chiamarono i miei all'altoparlante. Mi raggiunse mio padre. Non rideva. Quella volta forse anch'io piansi. Non ho un ricordo preciso. Ho in mente invece l'ansia intrattenuta di mia madre che mi sgridò aspramente e senza possibilità di appello. Per giorni mi tenne un broncio freddo e ostile. Perché poi non l'ho mai capito.
Insomma, ho dormito fino ad un'ora messicana irriferibile. Il mio amico mi ha creato intorno una stanza dove il tempo non potesse dare segnali di giorno fatto. Al risveglio, ho le giuste occhiaie di chi si sta rilassando. Mi dicono che sono bellissimo. Voglio crederci.

16 agosto 2010

VICTOR HUGO

THE STORY FROM MOSTKI - Marian Nowinski

Dio è il braccio, il caso è la fionda, l'uomo è il sasso.
Provate a resistere, una volta lanciati. - Victor Hugo


La mattina regala un cielo impressionista mozzafiato. Dopo il temporale della sera che ha bruciato anche qui i resti dell'estate. Non desidero nulla, se non continuare a stare e fare quello che faccio. Sostare con il mio amico in casa sua. Chiacchiere a caso, perlopiù silenzi, i miei, e lo sfogliare leggero di libri geniali e illuminanti. Ho tra le mani, dietro indicazione preziosa, dedicato al mio amico con una scrittura svelta e decisa, la presentazione di Marian Nowinski (Polonia, 1944). Il mio ospite mi racconta come all'inizio di carriera l'abbia aiutato. Gli regalò carta da disegno e colori. Scappava da un paese distrutto dalla guerra. Non aveva nulla. L'uomo si mise a piangere davanti a quel regalo per lui sontuoso. Preziosi e insperati oggetti che danno forma a una vita d'artista. Alle pareti campeggiano parecchie sue opere, doni nel tempo di chi non dimentica. In evidenza, visi familiari di due bambine, ritratte sia a figura intera che solo i volti. Oggi i quadri di Nowinski hanno acquistato un valore stratosferico. E' direttore dell'Accademia d'arte di Varsavia.

15 agosto 2010

AMICI

Salta fuori all'improvviso, senza preavviso. Ti chiama o lo chiami, è indifferente. Ti dice che ti ha sognato e che ti ha sentito. Dici che stai partendo, lui ti invita. E cambi itinerario. Lo fai volentieri, perché sai che trovi casa. Accogliente anche più della tua. Sai che trovi qualcuno che ti alloggia con il cuore, che su di te ha sospeso il giudizio. Ti prende per come sei. Con i tuoi silenzi, le tue umoralità scomposte. Le tue sigarette le odia, ma se fumi non ti dice nulla. Ti lascia fare e ti accudisce. Quel tanto che basta per farti respirare meglio. Quel tanto che basta per farti sbadigliare, dopo tanto tempo che non ti rilassavi un attimo. Quel tanto che basta per sentirti bene. Almeno per una sera o qualche giorno. Poco importa. Il tempo è come sospeso, si dilata mirabilmente. Si crea un'isola tutta per te, con un che di calore che non sentivi da molto. Si mangia in compagnia, ognuno fà qualcosa per ammanire un desinare pretestuoso a discorsi che fluiscono aperti e schietti. Anche con ruvidezze che più spesso controlli. Qui invece saltano fuori così come vengono. Deponi le difese. Tutte. Ti senti rispettato fino in fondo, non prevaricato nè manipolato in alcun modo. Non c'è nemmeno lontanamente idea di violenza in parole e gesti. Così come spesso accade nella vita di tutti i giorni con chi non ti conosce e vede in te solo un pericolo, un bersaglio o una preda. Non vuole nulla da te, se non camminare per breve tempo insieme. Fino al prossimo incontro. Non ti curi dell'uso delle parole, attento solo a spiegarti e farti capire al meglio. E quando le parole mancano va bene anche il silenzio, lo scostarsi su un terrazzo defilato a cui puoi accedere quando vuoi. Il mio amico sa quando lasciarmi solo. Sa che ne ho bisogno come l'aria che respiro. A guardare le stelle o l'orizzonte. Una scusa per mettere a fuoco pensieri inespressi, che ancora non hanno trovato la strada delle parole per dirsi. E forse non la troveranno mai. Pace e serenità senza confini nutrono come acqua di sorgente. Sono in una zona di confine. I monti alle spalle e più alte montagne davanti. Lo stesso confine dove siamo deposti, tra l'essere che siamo e quello che pensiamo di essere. Lo stesso margine in bilico in cui siamo il più del nostro tempo. E' il luogo di chi vive all'incorcio dei venti ed è bruciato vivo. E' quel tratto che caratterizza le ambiguità, le contraddizioni e le soluzioni sospese dell'essere umano che si dibatte in una quotidianità contorta. E' il luogo delle non risposte, del senso inutile delle cose, dell'affanno che ci tiene in vita. Il mio amico mi presta un maglione che ci voleva. E' azzurro e lo trovo senza parole sul letto pronto per me. Non ho scaricato tutto dalla macchina, ho con me solo il pigiama e lo spazzolino da denti. L'aria è più fredda di quanto avevo previsto. La mia meta di viaggio può aspettare.

14 agosto 2010

IL RESPIRO DELLE PAROLE

Qualche mese fa ho proposto ai miei allievi una poesia di De Luca. Chi ha voglia cerchi il post. Avevo anche chiesto ai medesimi, dopo letture e riflessioni in lungo e in largo, di riscriverla con parole loro. Non posso per ovvi motivi riportare i loro scritti, tutti indiscutibilmente struggenti. Ma posso proporre il mio, dato che anch'io riscrissi con loro. Mi è saltato fuori lo scritto dal baillame casalingo. Chiaro segno degli dei che vada divulgato.

Valore
Considero valore ogni forma di vita, il mare, l'albero, il ragno.
Considero valore la terra, i fili d'erba dei prati.
Considero valore un boccale di birra finchè si è insieme, un gesto inavvertito, la forza di chi nel dolore respira, due giovani al primo amore.
Considero valore i dolori di tutti.
Considero valore non buttare il pane vecchio, riparare un calzino, evitare l'insulto, rispondere a chi chiama,
chiedere se non disturbi prima di parlare a chi non conosci
provare commozione e piangere senza sapere perché.
Considero valore sapere accendere una fiamma senza fiammiferi, capire il calore del fuoco prima che la legna bruci.
Considero valore il primo viaggio di un ragazzo, la vocazione del prete, la pazienza delle donne, anche se insensata.
Considero valore l'uso del verbo crescere e l'ipotesi che esista qualcuno oltre le stelle.
Vorrei avere capito questi valori quando li ho incontrati sulla mia strada.
Ma so che non ho abbastanza occhi e cuore per comprenderli davvero.
(Liberamente tratto da Valore, Erri De Luca, in Opera sull'acqua, Einaudi 2002)

13 agosto 2010

L'OZIO DI KANT

Non so più se la moglie o la sorella. Certo è che se Kant non fosse stato accudito di tutto punto nelle incombenze quotidiane non ci avrebbe ammorbato con quel tomo che porta il titolo di Critica alla ragion pura. Già siffatte parole fanno tremare i polsi. In realtà, che fosse moglie o sorella poco importa. Si trattava in ogni caso di figura materna, accudente e accogliente. Noi studenti non ci capivamo nulla. Eppure ci abbiamo studiato. Ricordo un veloce libretto. Una copertina ingenuamente azzurro polvere e blu ci regalalva il compendio di quell'opera monumentale. Non ne capivamo nulla comunque. A dispetto delle sinossi dei pezzi più impegnativi, delle glosse che adornavano le pagine, delle spiegazioni dell'insuperabile Antonia. Nulla. Quello che siamo riusciti a partorire, i genii, è stata la battutona dell'anno. La sorella di Kant si chiama Kantina. Ridacchiavamo, stupidi e imberbi, a raccontarcela di continuo. Io, più insensato di altri, feci uno schizzo a grafite nell'ultima pagina del libretto. Raffigurava una ragazzina dai capelli ricci con gli occhiali dalla cui bocca usciva un fumetto di presentazione: "Ciao, mi chiamo Kantina". Forse quindi era la sorella. Insuperabile anche questo, a suo modo. Insomma, questo signore se ne sta là, a oziare e a non pensare a null'altro che a farsi illuminare dall'Illuminismo che stava da tutte le parti, a elucubrare sull'ipotesi cosmogonica della nebulosa primitiva, a ragionare sulla correlazione sussistente tra metafisica e scienza. In pratica, non aveva un cazzo da fare. Ben per lui. La libertà e il tempo del pensiero esigono un'assoluta mancanza di obblighi concreti, di responsabilità pragmatiche. Trattasi di grande privilegio, a dispetto di chi sfanga le cose da fare al nostro posto. Anche solo riempire il frigo che probabilmente Immy (1) non possedeva. Qualcuno cucinava ogni giorno per lui.
L'iperbolico compito filosofico che Kant si prefigge lo porta alla scelta di una vita molto riservata, fatta di abitudini e di libri. Ricordo, sempre grazie alle indimenticabili lezioni della filosofa che ho avuto l'onore di avere come insegnante di liceo, il famoso aneddoto della passeggiata di Kant. Talmente abitudinario che si racconta come gli abitanti di Königsberg la usassero per controllare la precisione dei loro orologi. Solo un grande evento riesce a distrarre il filosofo dalla sua passeggiata: l'avvincente lettura di Emile di Jean Jacques Rousseau. Ognuno ha i suoi gusti. Anche letterari.
Lo studioso che è stato capace di superare la filosofia newtoniana, offre al mondo un nuovo sistema metafisico. Mica pizza e fichi. La vita di Kant è stata dipinta come ossessivamente metodica. Infatti, non è segnata da eventi drammatici o avventurosi, perciò l'uomo ha potuto dedicarsi anima e corpo allo studio e all'indagine filosofica. La sua apertura mentale e le sterminate letture onnivore determinano una grande visione della vita. Ma anche di ciò che sta sopra e sotto. Certo, poter leggere tutto il santo giorno vuole il suo impegno. E poi si dice la miniera. Pare anche che fosse un brillante in compagnia. Si racconta che amava contornarsi di amici con cui conversava amabilmente. Tutti basiti per quella incongruente acutezza che caratterizzava il suo immenso ingegno. Pare fosse piccolo e insignificante a vedersi. Avrei voluto averlo come amico. Così, per animare la conversazione.

- Nell'immagine la collezione Diabolik ed Eva Kant di nota casa di produzione scarpe da ginnastica.

(1) Morì nel 1804, colpito dal morbo di Alzheimer, mormorando «Es ist gut» (Va bene).

OGGETTI

(Il mio è molto più piccolo. Anche il colore è diverso)
Parto anch'io alla fine. Non lontano. Una settantina di chilometri mi separeranno da casa. Si può fare. Viaggio leggero. Uno zaino limitato mi accompagna. Certo mi attende luogo attrezzato. Due magliette di cotone e due paia di pantaloni americani. Uno va l'altro viene. Intimo qb. Calze, taccuino e scatola tascabile di colori. Agenda sempre presente, a segnare appuntamenti e impegni che non ricorderei in altro modo. A settembre si riparte. E' vicino e le questioni di scuola esigono un minimo di impegno previo. Che consiste in un paio di letture estive del tutto casuali. Porto con me anche oggetti inutili che qui non voglio rammentare. Perchè poi. Doppia domanda si intende. Alcuni dei miei, oggetti voglio dire, producono un rumore come di campanellini. Fanno compagnia e imprimono suoni divertenti in situazioni impreviste. Quella piccola confusione corsara fa sorridere anche me. Porto anche i nunchaku da bunkai (è arma da studio, costruita in rattan ricoperto in gomma morbida). Non fanno male ad una mosca, ma allenano il corpo per nuove fatiche invernali. "E' bene non mettere in stand by il fisico" - sentenziò ultima lezione il sensei. Proseguì con una cosa molto marziale: "La pausa non va bene per chi si allena a karate. Fare pausa è da deboli". Punti di vista. Comunque ho i compiti delle vacanze. Pare che i miei polsi non siano abbastanza snodati, sicchè le spalle mi si irrigidiscono nei movimenti. L'allenamento mi aiuterà a sciogliermi. Spero. Vado in montagna. Occorre vestirsi pesanti. Preferisco le villeggiature montane. La gente è costretta a esibire i corpi in misura contenuta. C'è meno carne al vento, più attenzione alle scarpe che porti che alle braghe che indossi. Le donne poi sono vestitissime. Bello immaginare più che vedere squadernato senza pietà nè fantasia. Il mare, è noto, è bello d'inverno. Porto anche un paio di felpe pesanti e una maglia di magica microfibra. Lo zero termico è sempre in agguato a certe altitudini. Aggiornerò quando posso e non so se potrò. Non posseggo pc. E' una delle questioni che devo risolvere al rientro. L'ho segnato sull'agenda. Altrimenti l'ineffabile patagonico di Internet Point rischia di avermi come cliente fisso per sempre. Meglio di no. Il per sempre mi atterrisce. Domani grandi pulizie e riordini. La casa infatti è una specie di campo di battaglia. Sarò schiavo di me stesso per mezza giornata almeno. Tanto ci vuole per rendere una parvenza di abitabilità a qualcosa che assomiglia ad oggi ad una tana. Farò il possibile. So già che al rientro avrò ancora molto da fare. La casa in cui si abita è una specie di gorgo marino. Occorre fare molta attenzione a non finirci dentro. Si rischia di non uscirne mai più. Sono più sensibile alla pulizia che all'ordine. Quest'ultimo poi è questione delicata e soggettiva. Di contro, credo di avere vedute molto larghe. In genere. In ultimo, porto anche un anello che produttori elvetici garantiscono segni emozioni. Risulta assai mutevole. Questo lo sapete già.

12 agosto 2010

NOVACULA OCCAMI

La gente che resta in città è curiosa. Fauna urbana che di solito si nota poco, acquista una vivacità di immagini nitide come rasoi. Questo penoso preambolo per introdurre una teoria che mi sta a cuore, forse troppo. Il mistero che sta alla radice delle scelte individuali. Nella fattispecie il fatto cha alcune persone scelgano di stare in città e altre no. I motivi che radicalmente stanno alla base delle scelte sono in genere molto interessanti. Mi incuriosiscono. A partire dalle mie. Non sempre riesco a comprendermi. Figuriamoci gli altri. In ogni caso viene in aiuto un frate. Di seguito, presento un pachwork di riflessioni mie, pochissime. E la solita scopiazzatura qua e là per spiegare cosa può aiutare. Chi non si diletta di filosofia della scienza, attenda prossimo post. Non si annoi leggendo ciò che non interessa. E che nemmeno suscita una qualche vaga curiosità. Ognuno, si sa, ha diritto di spendere il proprio tempo come vuole. Non si renda conto a nessuno.
Rasoio di Occam (Novacula Occami in latino) è il nome con cui è conosciuto un principio metodologico espresso nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano inglese William of Ockham. In italiano lo conosciamo come Guglielmo di Occam. Il principio formulato dal frate pensatore sta alla base del pensiero scientifico moderno. Nella sua forma più immediata suggerisce l'inutilità di formulare più assunzioni di quelle che si siano trovate per spiegare un dato fenomeno. Il rasoio di Occam impone di evitare cioè ipotesi aggiuntive, quando quelle iniziali sono sufficienti. Se una teoria funziona è inutile aggiungere una nuova ipotesi. La metafora del rasoio concretizza l'idea che sia opportuno, dal punto di vista metodologico, eliminare con tagli di lama e mediante approssimazioni successive le ipotesi più complicate. In questo senso il principio può essere formulato come segue: non c'è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. All'interno di un ragionamento o di una dimostrazione vanno invece cercate la semplicità e la sinteticità.
Ciò significa che – tra le varie spiegazioni possibili di un evento – bisogna accettare quella più immediata, intesa non nel senso di quella più sprovveduta o di quella che spontaneamente affiora alla mente, ma quella che appare ragionevolmente vera senza cercare un'inutile complicazione aggiungendovi degli elementi causali ulteriori. Questo anche in base a un altro principio, elementare, di economia di pensiero. Se si può spiegare un dato fenomeno senza supporre l'esistenza di un qualche ente, è corretto farlo, in quanto è ragionevole scegliere, tra varie soluzioni, la più semplice e plausibile. Il principio di semplicità era già ben noto a tutto il pensiero scientifico medievale, ma esso acquista in Occam una forza nuova e per certi versi devastante a causa della sua concezione volontarista. Se il mondo è stato creato da Dio solo sulla base della volontà (e non per intelletto e volontà, come diceva Tommaso d'Aquino), devono sparire tutti i concetti relativi a regole e leggi, come quello di sostanza o di legge naturale.
Il Rasoio di Occam (Ockham's Razor) è una pietra di paragone della filosofia della scienza. Guglielmo di Ockham suggerì che tra le diverse spiegazioni di un fenomeno naturale si dovesse preferire quella che non moltiplica enti inutili (entia non sunt multiplicanda).
Un esempio classico di applicazione del principio può essere la questione riguardante la generazione dell'universo:
1.da un lato si può ipotizzare un universo eterno, o generato da sé o per motivi sconosciuti;
2.dall'altro, un universo generato da una divinità, la quale a sua volta è eterna, o generata da sé o per motivi sconosciuti.
In questo senso, la prima versione non postula enti inutili (la divinità), ed è quindi preferibile. Si tende a definire la teoria del Rasoio di Occam come la scelta più semplice.
Occam non imponeva di scegliere il complesso di ipotesi di numero minore né suggeriva che esso sarebbe stato quello più vicino alla verità, ma che se le ipotesi formulate bastavano a spiegare il fatto non si doveva inutilmente complicare ma accettare la semplicità della spiegazione. Infatti da un punto di vista storico generalmente le teorie "più semplici" hanno superato un numero maggiore di verifiche rispetto a quelle "più complicate", con un insieme maggiore di ipotesi.
Una teoria alternativa potrebbe essere: "Per ogni azione c'è una reazione uguale ed opposta, eccetto il 29 ottobre 2016, quando la reazione avrà metà intensità". Questa aggiunta, apparentemente assurda, viola il principio di Occam, perché è un'aggiunta gratuita, come pure farebbero infinite altre teorie alternative. Senza una regola come il Rasoio di Occam gli scienziati non avrebbero mai alcuna giustificazione pratica o filosofica per far prevalere una teoria sulle infinite concorrenti; la scienza perderebbe ogni potere predittivo.
Il Rasoio di Occam è stato solitamente usato come una regola pratica per scegliere tra ipotesi che avessero la stessa capacità di spiegare uno o più fenomeni naturali osservati. Siccome per ogni teoria esistono generalmente infinite variazioni egualmente compatibili con i dati, ma che in alcune circostanze predicono risultati molto differenti, il Rasoio di Occam è usato implicitamente in ogni istanza della ricerca scientifica.
C'è chi sostiene che in base al rasoio di Occam introdurre un dio per spiegare l'esistenza del mondo risulta inutile. Infatti, alla domanda "Perché esiste il mondo?", i credenti dei principali monoteismi rispondono che "Il mondo è stato creato da Dio". Ma non essendoci per sua stessa definizione nulla di più potente di questo dio e quindi nulla che possa averlo creato, ne consegue che Dio, a differenza del mondo, è sempre esistito. Ma a questo punto, se è possibile che questo qualcosa sia sempre esistito, perché non anche il mondo? La risposta alla domanda iniziale "Il mondo è stato creato da Dio, il quale è sempre esistito" si semplifica quindi in "Il mondo è sempre esistito". In altri termini è superfluo (e quindi, secondo il rasoio di Occam, sbagliato in senso metodologico) introdurre Dio per spiegare l'esistenza del mondo. Altri (come Immanuel Kant - Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804) hanno però obiettato la riduttività della tesi, nel senso che la spiegazione corretta della realtà non è necessariamente la più semplice.
Esemplificativo della posizione di Kant qui esposta è l'aneddoto che ha come protagonisti il marchese Pierre-Simon Laplace e Napoleone. Quando Laplace presentò la prima edizione del suo lavoro a Napoleone, questi osservò: "Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come non abbiate dato spazio all'azione del Creatore". A queste parole Laplace replicò seccamente: « Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi».
Secondo alcuni, proprio la risposta di Laplace dimostra che l'applicazione di tale sistema a problematiche più complesse che riguardano la spiritualità dell'uomo costringe ad un'aberrazione forzata che esclude a priori l'evidenza di una morale intrinseca all'uomo che lo guida alla costante ricerca della fonte della sua origine. Basti pensare agli studi di Blaise Pascal o, ai nostri giorni, alle dichiarazioni dell'evidenza di Dio di Anthony Flew. E non manca chi sostiene che tutte le cose non hanno causa ma sono eterne (cfr. Emanuele Severino).
Anche qui, a mio modesto parere, si impara parecchio.

The crown and sword razor - Extra hollow ground

11 agosto 2010

FINE DI STAGIONE

Temporale maestoso e fulgente. Spazza via brandelli di estate che aleggiano ancora sulla città sfinita. Bellissimo. Già all'alba nembi plumbei di nerofumo si addensano all'orizzonte. Montano come panna grigia a riempire il cielo. Nelle prime ore della mattinata il finimondo. Acqua a rovesci imprecisi e consistenti per almeno due ore. Piove ovunque in modo selvaggio e incostante. Un vento gagliardo e scomposto fa da complice al muro d'acqua che scende senza tregua. Odore di terra riarsa che accoglie acqua. Sembra di stare in campagna tra filari immaginati di viti. Si rovesciano le persiane sventatamente lasciate aperte. Le pensiline dei negozi aleggiano e si gonfiano come lanterne al vento. I radi passanti si raggruppano sotto tettoie improvvisate. Qualcuno è già fradicio. La temperatura va giù di botto di 10 gradi e più. L'aria è fresca e si capisce che il caldo torrido dell'estate è già ricordo. Se il calore di fine estate tornerà, non sarà più la stessa cosa. Aspetto già cieli azzurri di settembre. E' l'unico momento in cui la città concede cieli colorati. Se capita di toccare l'acqua di una pozzanghera risulta tiepida. A proiettare quello che d'intorno crea il paesaggio urbanizzato. Case, tetti, macchine in sosta. Tutto è più pulito e terso. Se si intravvedono da lontano alberi, se ne possono contare le foglie. L'aria è respirabile e fresca. Vado a casa a tirare fuori abiti autunnali.

10 agosto 2010

CARTOMANTE

Bighellono per le vie del centro cittadino, silenzioso e vuoto. E' innaturale come un ragno senza una tela almeno nelle vicinanze. Una cartomante sta facendo le carte a curioso turista. Parla un inglese perfetto. L'uomo è affascinato e ascolta. Leggere il futuro, prevedere la sorte, indovinare il destino è attività che incanta. Tornano dal retro della memoria nozioni antiche. L'oracolo di Delfi era il più importante oracolo dell'antica Grecia. Lo ricordo studiato e ristudiato da diverse angolazioni nozionistiche e polverose. Però resta.
Si trattava di un oracolo nella città greca di Delfi. Attribuito ad Apollo, il dio che si propone come il principale tramite tra l'onnisciente Zeus e gli uomini. Era l'oracolo più importante di tutto il mondo greco, per questo il santuario di Delfi era chiamato ombelico del mondo. Una pietra scolpita, detta appunto omphalos ne attestava l'importanza. E' singolare come poi lo stesso etimo ritorni a testimoniare l'origine materna. Ombelico appunto. Con l'eccezione dell'autore degli inni omerici ad Apollo, che gli attribuisce la fondazione dell'oracolo, i mitografi si dividono in due gruppi: per il primo il dio ricevette l'oracolo in dono da altre divinità; l'altro, forse più antico, parla di una lotta col drago Pitone che era il guardiano dell'oracolo, allora posseduto da Gea (la principale divinità ctonia) per ottenerne il controllo. Pito era in effetti l'antico nome dell'oracolo.
Gli oracoli erano pubblicati quasi sempre in esametri, un verso che sarebbe anzi stato inventato da Phemonoe, la prima pizia. La lingua era generalmente dialetto ionico. Sono pervenuti anche oracoli in dorico. All'entrata del tempio c'era una scritta:

Ti avverto, chiunque tu sia. Oh tu che desideri sondare gli arcani della Natura, se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi non potrai trovarlo nemmeno fuori. Se ignori le meraviglie della tua casa, come pretendi di trovare altre meraviglie? In te si trova occulto il Tesoro degli Dei. Oh Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei.

Le pizie erano prescelte tra le famiglie di poveri contadini, nate a Delfi; il compito della sacerdotessa era rischioso. Le si imponeva, una volta entrata nel santuario, di non lasciarne mai più il servizio, oltre al nubilato. Nei tempi antichi le pizie erano prescelte ancora fanciulle. Dopo un caso di seduzione, si ricorse all'espediente di scegliere solo donne oltre i cinquanta, che però per tradizione indossavano abiti da giovinetta. Nel periodo aureo di Delfi erano presenti nel santuario fino a tre pizie. Ugualmente era possibile consultare l'oracolo non più solo un giorno all'anno, come nei tempi arcaici, ma alcuni giorni ogni mese. I membri dell'aristocrazia di Delfi esercitavano le cariche sacerdotali che controllavano l'oracolo. In particolare, i cosiddetti Ὅσιοι (Hòsioi), cinque sacerdoti che erano praticamente i veri responsabili delle profezie, erano sempre scelti all'interno di cinque famiglie che si ritenevano discendenti diretti di Deucalione (Euripide, Ion.411 - Plutarco Quaestiones Grecae 9). Si ritiene generalmente che i Delfi, che esercitavano il controllo ultimo sulle interpretazioni dell'oracolo, dovessero essere in possesso di una notevole mole di conoscenze a cui ricorrere, dato che spesso i consigli dati dall'oracolo si rivelavano sensati. Seppure molti oracoli fossero oscuri e talvolta ambigui, molti sono estremamente diretti e chiari, rispecchiando evidentemente la volontà dei sacerdoti.
L'oracolo di Delfi raggiunse il suo acme nell'età delle fondazioni delle colonie greche. Era impensabile partire per un'avventura coloniale senza un responso oracolare. L'oracolo poi veniva spesso consultato per dirimere le contese fra colonie e madrepatria. Altra caratteristica dell'oracolo era una sua costante inclinazione a favorire i Dori sugli altri popoli greci. Sparta in particolare godeva in certi periodi di un vero e proprio trattamento di favore. Allo scoppio della guerra del Peloponneso questa preferenza divenne così accentuata che Atene e i suoi alleati divennero sempre meno inclini ad accettare gli oracoli (Plutarco, Demosthenes, 20), cosa che da ultimo causò il declino della sua popolarità.
Ai tempi di Plutarco, come nei tempi più antichi, a Delfi non vi era più di una sola pizia in servizio, e le sessioni oracolari tornarono a rarefarsi, un solo giorno al mese. Inoltre, essendo venute a mancare le richieste di oracoli su importanti questioni religiose e politiche (a causa della fine dell'indipendenza greca) venne meno l'uso di redigere gli oracoli in versi, non più adatti alle questioni che ormai venivano presentate (Plutarco De Pith.Orac 28). Tutto questo ebbe ripercussioni sull'autorità dell'oracolo, dato che anche coloro che ancora lo consultavano in buona fede spesso non potevano credere che il dio si occupasse con grande cura di materie spesso triviali. Tanto che nel 360 quando Giuliano, ultimo degli imperatori romani che cercò di risollevare il paganesimo, volle avere un responso dall'oracolo gli fu data questa risposta:
Dite al re che sono crollate le corti sfarzose, Febo non abita più qui, non ha più lauro oracolare né sorgente che favella; l'acqua parlante si è ammutolita.
Pochi anni dopo l'imperatore Teodosio I, a partire dall'anno 391, con una serie di editti, decretò la fine dei culti pagani e nel 394, la chiusura definitiva del santuario. Per impedire che il tempio venisse riconvertito in chiesa cristiana (come capitò a molti edifici sacri dell'epoca), gli ultimi sacerdoti pagani pare che distrussero volontariamente l'edificio (diroccandone il tetto ed abbattendone le possenti colonne, i cui blocchi caddero l'uno sull'altro) ed i principali edifici sacri, che ben presto vennero ricoperti dai detriti delle frane e dalla vegetazione.
I muri e le colonne affioranti vennero usati nel Medioevo per la costruzione della nuova città di Delfi, posta leggermente più a valle. Ma una città costruita con elementi architettonici antichi non poteva passare inosservata. Sicchè alla metà dell'Ottocento (subito dopo la guerra d'indipendenza greca), furono compiuti i primi scavi sistematici, che portarono alla scoperta degli edifici e dei monumenti più importanti. Grandissima parte delle suppellettili sono tuttora conservate nel vicino museo.

*Museo del Louvre, Parigi, Francia - Eracle e Apollo si contendono il tripode delfico. Oinochoe attica a figure nere, c. 520 a.C. Bisogna anche ricordare il mito, più tardo, della lotta per il tripode sostenuta contro Eracle che ambiva anch’egli al possesso dell’oracolo.

- Questo post è di evidente arbitraria scopiazzatura. Non ho voglia di impegnarmi in qualcosa di più personale come faccio di solito. Il sapere di altri, le fonti storiche, la storia dei popoli hanno comunque grande fascino. Copiando qua e là ho avuto occasione di apprendere parecchie cose. Spero anche voi leggendo.

9 agosto 2010

LEONARD BERSTEIN NON COPIA

Odo musica latina proveniente da oltre il muro di cinta di un parco urbano. Amo i parchi. Sembrano smpre in attesa di me che li percorro. La sensazione è affascinante. Qualcuno che aspetta me. Sempre. Penso più densamente a tutte le copie che girano di quel motivetto vagamente ossessivo. Penso che tutti copiano. Lo si fa di continuo, anche senza accorgerci. A volte, qualcuno chiede aiuto che prestiamo con tutti noi stessi; ma rubiamo un'idea, un'intuizione qualunque e ne facciamo merce. Così per abitudine. Il confine tra la mano tesa e l'utilizzo a volte è sottile in maniera davvero implicante. Io stesso ho copiato per l'esame di ammissione a casta ristrettissima di professionisti nostrani. Ho comunque pagato caro prezzo all'orale. Tutto si tiene alla fine. Il risultato deve dare in ogni caso zero. Una giovane di eletta borghesia del mattone mi passò il tema da svolgere. Lo presi a traccia e ne inventai uno tutto mio. In cui potevo in qualche modo trovarmici. Il mio svolgimento ebbe una valutazione più favorevole del suo. Imbarazzo inarginabile. La base di questo giochino da dilettanti fu comunque, è innegabile, una copia. Si copiano quadri famosi, i miei allievi appena possono i compiti in classe, gli adolescenti il leader del gruppo. Bene che va si fà copia dal vero. Gli adulti si fanno preferibilmente sedurre da immagini plasticate di gente famosa. L'immagine ci rende sempre molto sensibili. Le donne cercano copie omologhe di personaggio tenebroso e bellissimo, interprete di non so quale serie filmica. Pensano di sposarsi o cose del genere. Noi uomini invece cerchiamo copia della bionda del momento. C'è sempre una bionda del momento. E un clone è sempre in agguato per noi. Sempre che assomigliamo al tenebroso di cui sopra. Una copia appunto. Le band più o meno esperte producono cover, copie per l'appunto. A seguire, i teen ager ballano copia di danze fornite da emittente televisiva appropriata al target. Gli asiatici, si sa, sono maestri nel copiare tecnologia fine. In Europa invece, ci dilettiamo a scimmiottare modelli a stelle e strisce. Si copia talvolta in modo ossessivo, il modo di vestirsi, profumarsi, il taglio dei capelli. Non si osserva pressocchè nulla in giro che non sia stato visto almeno 73 volte o giù di lì. Le copie non si contano mai con precisione. Sono copie appunto. Se ne perdi una hai l'altra.

La fotografia in b/n ritrae Leonard Bernstein con la sorella Shirley nella Stanza Verde al Carnegie Hall dopo lo spettacolo con la Filarmonica israeliana - Marzo 1951.

7 agosto 2010

MARTIRI

Le notizie dal mondo scivolano addosso come marmellata tiepida. Non interessa nulla, si legge con lo stesso entusiasmo il reportage di nota firma estera o la sinossi compiacente di un film già visto tre volte. Si preferisce non leggere, nè ascoltare news dal mondo. Piace perlopiù l'idea che quello che accade dovunque non ci sfiori minimamente. Non ci si rende conto invece che siamo interconnessi come fili di un medesimo circuito elettronico. Salta uno, salta tutto. La preghiera laica dell'uomo contemporaneo dovrebbe essere la lettura del quotidiano. La globalizzazione non è invenzione e porrebbe obblighi. Così non è. Almeno nel nostro bel Paese mediterraneo. In altri lidi si legge di più, è noto. Il giornale più venduto e letto da noi invece è lo storico foglio rosa. Imprescindibili avvenimenti sportivi richiamano quotidianamente la nostra attenzione. Si tratta di fatti da ricordare e da seguire. Cosa ci farà un rumeno ad allenare la squadra calcistica viola? In trepidazione aspettiamo risposte.
Invece. In nota città del Nord è successo qualcosa che dovrebbe fare se non pensare, almeno riflettere fuggevolmente. Una donna, potrebbe essere madre, figlia, sorella, amica, non è più tornata a casa. E' uscita ed è morta. Un pugile dilettante ha litigato definitivamente con la fidanzata. Ha dichiarato alla madre che usciva e che avrebbe ammazzato la prima che avesse incontrato. Così ha fatto. Uomo di parola.
Mi vergogno. Due i motivi. Uno: il genere umano è definitivamente perduto, senza speranza nè tantomeno possibilità di appello. Due: essere uomo fà arrossire e confondere per la pochezza dell'anima. Che evidentemente è nera come pece. Ragiono su come trattiamo le donne in genere. Complice una forza fisica maggiore, ci sentiamo padroni di tutto. Da lì credo, parte l'insensatezza della guerra tra i sessi e la nostra inefficace supremazia. E' come se si ragionasse su chi è più forte: l'uomo o la tigre. L'animale in un possibile confronto è destinato a vincere. Certo la superiorità dell'essere umano non ne verrebbe scalfita. Eppure. Su quel sillogismo arbitrario e arrogante, abbiamo fondato un mondo di uomini e per gli uomini. Fatto a nostra immagine e somiglianza. Le donne, si sa, sono il riposo del guerriero. Se va bene. Altrimenti le annientiamo con burqua e infibulazioni mortali. Per il nostro piacere e divertimento che deve rimanere privato e unico. Si sa, la femmina è possesso, territorio di chi la conquista, fattrice della nostra primogenitura. Che sia maschio, mi raccomando. Il matriarcato resta un'ipotesi storica affascinante e onirica. Con buona pace di Bachofen. Lo svizzero compone testardamente una rassegna enciclopedica di miti e di simboli di ogni parte del mondo. Scrive un'immane opera, Il matriarcato appunto, un classico dell'antropologia e della storia delle religioni. Più citato che letto, il tomo è basato sulla scoperta di uno stadio dell'evoluzione della civiltà, durante il quale il potere sarebbe stato in mano alle donne anziché agli uomini. Nel matriarcato e nell'amore della madre per i figli (riscontrato in innumerevoli figure di Grandi Madri, tra cui spicca Demetra) Bachofen esalta una sorta di "poesia della storia". Il mondo in quella fase si ipotizza abbia vissuto momenti di grande elevazione morale della vita e del costume. Insomma, anche gli svizzeri sanno sognare.
Resta una donna morta, tra le tante, una più una meno. Si rimpiazza facilmente. Sinisa Mihajlovic invece, si sa, risulta essere insostituibile.

6 agosto 2010

FATE D'OGGI

Nel mio vacuo tempo libero imbratto tele imbarazzanti. Una bellissima scusa per accedere a negozio debito e imbandito come una tavola natalizia. Lo gestisce una giovane con il cugino. Segue lei i miei acquisti imperfetti e senza dottrina apposita. Fa da guida tra matite, pennelli, polveri sottili come seta colorate da mille e una notte. Ha anche una polvere di lapislazzulo, pietra vera. Costa un botto. Ma è bello sapere che c'è. E se c'è puoi. Mentre bilancio l'acquisizione di una nouance di verde acquamarina, mi guarda fisso. Mi dice che tra un anno non sarà più al negozio.
Andrà a Boston perchè ha deciso di avere un bambino. Ha laggiù la sua compagna. Docente di economia presso locale blasonata università. E' già in carico a prestigiosa struttura ospedaliera locale che la seguirà nel percorso di fecondazione assistita. Mentre parla la osservo. Ha occhi languidi e innamorati, come pochi se ne vedono ormai. La ringrazio per la confidenza di prezioso segreto. Mi dice che aprirà là negozio omologo. Potrà scegliere il sesso del bambino. Il donatore è un irlandese e lei sarà la portatrice. Non vede l'ora. L'orologio biologico incalza. Le faccio tutti gli auguri del mondo. Mamma coraggiosa, donna forte, indomita sognatrice con radici ben piantate per terra. Il figlio sarà femmina. E' possibile scegliere. Sarà una donna meravigliosa. Nata libera in paese accogliente, affrancato e uso a realizzare desideri impossibili. Vien voglia di migrare. Le dico che a settembre le porterò il ritratto di sua figlia. La immagino. Capelli di rame, occhi verde o azzurro oceano. Forse qualche rada lentiggine. Lei è bellissima, la figlia non sarà da meno. Mi disegno in testa la bambina dei sogni. Ho un brivido di emozioni miste.

VIOLAZIONE

Muore vicino di casa dopo lunga e penosa malattia. La moglie, occhi di lago indomiti, si nasconde dietro una fragilità ammantata di magrezza estrema. Faccio debite condoglianze. Ha voglia di parlare. Mi racconta come il marito sia stato sepolto in un luogo fuorimano, ma vicino a base aerea. Era in areonautica. Militare. Avevo sempre pensato fosse muratore. Le apparenze. Invece mi dice come al funerale fosse pieno di gonfaloni e di graduati in senescenza. Ad assistere all'ultimo viggio del vecchio. Era controllore di volo. D'un colpo capisco tutto.
Negli Anni '70 mia madre, proprietaria con il fratello della casa che abito, rifece la magione. I due fratelli d'accordo per una volta nella loro breve vita, decisero di abbatterla. E di ricostruire qualcosa da poter dividere salomonicamente. Così fecero. Nel fare ciò, mia madre, presa dal pragmatismo che le era abituale, fece un abuso edilizio. Innalzò la nuova casa di circa 20 cm. Che le costarono caro. Anzi a me e alla mia famiglia. Che si videro recapitare mezzo posta copia fedele di denuncia di zelante vicino. L'uomo vide la propria casa sorpassata da quella nuova di mia madre e del suo ancor più presuntuoso fratello. Una decina di anni dopo, sanare quel pezzo di novità evidentemente fuorilegge, costò alle mie finanze svariati milioni di lire. Ora capisco di nuovo. Il controllore di volo, autore della denuncia, non aveva sopportato la violazione dello spazio aereo. Eravamo usciti dalle coordinate concesse. Eravamo pirati dell'aria. La legge doveva fermarci in qualche modo. Per molti anni tentò infatti di far abbattere l'abuso effettuato. Senza riuscirci. Mia madre aveva una sua cifra coriacea e inattaccabile. Il controllore perse la battaglia. Ma chiaramente ha vinto la guerra. Chapeau comandante.

14/ 07 / 2010 tratto da un giornale locale del Sud Italia
Oggi, un aereo della Marina Militare Harrier Av8 e' precipitato nello Jonio di fronte alle coste calabresi. L'aviatore si e' lanciato subito dopo aver accertato che il veivolo non costituisse pericolo. Lo rende noto la Marina Militare. Sono in corso le operazioni di recupero del pilota, il quale e' gia' in contatto con i mezzi di soccorso.
*L'immagine riporta un aereo simile a quello caduto di fronte alle coste calabresi.

ANIMALI FANTASTICI 3

Mio padre aveva un mastino napoletano. Lo incontro di nuovo in parco periferico. Il padrone è noncurante, il cane invece mi fa le feste. Il mastino napoletano è una razza canina che deriva dai molossoidi rustici, diffusi nelle campagne delle regioni meridionali italiane.
La prima testimonianza dell'esistenza di un molossoide in compagnia dell'uomo è un bassorilievo Assiro, antico di 2500 anni, che raffigura un cane di grossa mole con arti possenti e struttura leonina. La pelle si raccoglie in pliche e pieghe sul collo e sulla testa. Nel prodotto artistico è tenuto da un uomo molto piccolo in proporzione e porta in mano un bastone, che probabilmente vuole consapevolizzare lo spettatore riguardo al carattere dell'animale. Le prime notizie scritte riferibili alla razza sono da ricercare nelle citazioni del Canis Pugnax pesante, l'antico molosso romano impiegato nelle arene contro le belve, ma anche nella guardia alle ville di campagna. Una variante leggera veniva impiegata dalle legioni come cane da guerra, ma era un animale versatile, usato anche nella caccia alla grande selvaggina, nella conduzione delle mandrie e per la difesa personale.
Inizialmente vennero mantenute le denominazioni "cane 'e presa", "molosso italiano", "cane mastino", "cane corso", poi attorno alla metà degli anni '60, venne stabilita (forse a seguito di pressioni da parte delle organizzazioni cinofile locali) la denominazione di "mastino napoletano". Abbiamo anche una rappresentazione di un antico mastino da guerra, di enormi dimensioni, in una tavoletta risalente all'850 a.C. ritrovata presso Ninive e conservata al British Museum. Diversi autori dell'epoca imperiale (ricordiamo Gratius Falsicus nella sua opera intitolata Cinegetica) testimoniano però di come i legionari furono impressionati dall'incontro con i cani delle isole britanniche i Pugnaces Britanniae, i progenitori dell'odierno Mastiff. Alcuni ritengono che tali molossi furono portati oltremanica 500-600 anni prima dell'invasione romana dai mercanti fenici, che li avevano avuti dagli assiri, mentre secondo un'altra ipotesi i mastini sarebbero giunti sulle isole assieme alle popolazioni dei Celti, attorno al primo millennio a.C., ma anche in questo caso i cani sarebbero stati acquisiti grazie agli scambi commerciali con il Medio Oriente. Inizialmente impiegati come temibili ausiliari in battaglia, ma anche nella caccia alla grossa selvaggina, vennero poi portati sino a Roma a combattere nei circhi, ed apprezzati al punto da incaricare un ufficiale apposito (denominato appositamente Procurator Cynegii) al loro reperimento.
La razza fu in tempi moderni perfezionata dall'allevatore Mario Querci, con lo storico allevamento. Oggi la razza in Italia e nel mondo è molto diffusa anche se, inevitabilmente, si tende a privilegiare una selezione impostata sull'esasperazione dei caratteri estetici, con una deriva verso l'ipertipo, pesante e poco reattivo. La razza che ha conservato maggiormente le caratteristiche dell'antenato comune, grazie al relativo isolamento, è il mastino del Tibet.
Carattere forte e leale, non ingiustificatamente aggressivo o mordace, difensore della proprietà e delle persone ha sempre un comportamento vigile, intelligente, nobile e maestoso. I colori preferiti sono: grigio, piombo e nero, talvolta con piccole macchie bianche al petto e alle punte delle dita, nonché il mogano, il fulvo e il fulvo cervo. Tutti i mantelli possono essere tigrati. Sono tollerati il nocciola, il tortora e l'isabella. E' la razza più indicata per la difesa della proprietà. E' possibile assegnargli in custodia un qualsiasi territorio, certi che lo proteggerà e non ne varcherà mai i confini e certi che nessuno potrà mai penetrare nella sua zona di dominio. Può essere definito una "sentinella armata". Allo stesso tempo è un cane affettuoso e struggente con le persone alle quali è affezionato, con il proprio padrone e con la famiglia che lo accoglie. Il mastino napoletano non deve mai essere abituato ad attaccare o a difendere perchè si confonderebbe la sua vera natura. Pertanto sono false e ingiuste le storie che vengono raccontate sulla sua razza. Se si rispetta la sua natura caratteriale, lui non attaccherebbe mai senza una giustificazione precisa. Il molosso ha necessità di un compagno che lo indirizzi in maniera corretta e semplice verso quelle che saranno le sue attività, con una educazione che non deve mai essere basata sulle punizioni bensì sulla pazienza perché in generale si tratta di cani molto sensibili. Con una corretta educazione si avrà un cane capace allo stesso tempo di proteggere e di giocare con il suo padrone. Questa categoria di cani infatti è recentemente balzata alle cronache italiane per alcuni casi di aggressione, cosa che ha portato il governo ad inserirne una buona parte in un emendamento in cui si rendono obbligatori guinzaglio e museruola in tutte quelle occasioni in cui il cane sia a contatto con altri cani o persone, ad esempio i giardini pubblici. Precauzione presa che non ne conferma una naturale aggressività, ma atta piuttosto a prevenirne i danni limitatamente in relazione alla loro stazza, che li rende obiettivamente più pericolosi di altri più piccoli.

- La fotografia ritrae un cucciolo di mastino spagnolo. Quello napoletano, in età adulta, mi pare troppo impressionante da proporre. Anche in effige.

5 agosto 2010

DISASTRI AMBIENTALI

Questo sappiamo.
Che tutte le cose sono legate
come sangue che unisce una famiglia.
Tutto ciò che accade alla Terra
accade ai figli e alle figlie della Terra.
L'uomo non tesse la trama della vita,
in essa egli è soltanto un filo.
Qualsiasi cosa egli fa alla trama,
l'uomo lo fa a se stesso.
Ted Perry (ispirato dal capo indiano Capo Seattle)

E noi abusiamo, come ci vendicassimo di qualcosa fatto a nostro danno. Lo si vede ovunque, in ogni momento. Mozziconi buttati da incuranti finestrini di auto che consumano sempre troppa benzina. Nella patetica usanza esportata del mangiare sushi. Si sa. Vengono utilizzate solo alcune parti del pesce. Il resto diventa cibo in scatola. Non sempre per animali. Nelle mandrie infinite che abitano aree una volta forestali. Che i cinesi non si mettano a mangiare hamburger. Sarebbe davvero la fine. Due miliardi di persone consumerebbero quadrupedi a fette pressocchè tutti i giorni. L'imperatore mondiale della carne avrebbe lavoro assicurato per alcune generazioni. Peccato che quella gente futura non godrebbe di un pianeta decente su cui impiantare i propri sogni. Non sognerebbe più. L'aria, resa metifica da ipotizzabili miasmi, sarebbe irrespirabile. La vita arrancherebbe ovunque. L'uso di caldaie e riscaldamenti sempre più potenti ed esosi ha sostituito i maglioni delle nonne. D'estate invece, si preferisce stare nelle dimore con golfini cangianti, piuttosto che spegnere ingordi condizionatori. Che avrà fatto mai il pianeta contro di noi, per squartarlo come solo l'uomo sa fare. Non è solo incuranza e presunzione di razza. C'è di più. L'idea che l'uomo vuole portare fino in fondo il suo ghiribizzo, la sua convinzione e la scelta suicida che lo fa pensare imperatore del globo. Si vede anche nella vita di tutti i giorni. In particolare, noi uomini dobbiamo fare quello che partorisce la nostra mente. In modo esclusivamente ed indiscutibilmente assoluto. Non negoziamo nulla, ma sappiamo benissimo fare finta. Ci camuffiamo da democratici che ascoltano l'altro, lo comprendono, considerano altri punti di vista come parte di una visione pluriprospettica della vita. Ci sentiamo e ci spacciamo per cosmopoliti dell'anima. Invece, quando i giochi si fanno densi e definitivi, tiriamo fuori l'ossatura del tiranno, del despota che ci abita da sempre. Vogliamo decidere i tempi e i luoghi delle situazioni che viviamo. Con le donne abbiamo atteggiamenti sintomatici e ambivalenti. Gestiamo giostre emotive spesso di autentica plastica, spacciandoci per ipersensibili. Come pianeti immobili, aspettiamo invece che qualcosa ci orbiti intorno per afferrarla al volo. Per vedere se abbiamo la mira di sempre. Ci crogioliamo nell'insana idea che i tempi alla nostra vita li guidiamo noi stessi e nessun altro. Siamo i padroni dispotici del nostro destino. Guai a chi si mette sulla nostra strada. Nel frattempo giochiamo a essere buoni, ad assecondare gli altri, a fornire illuminate riflessioni concilianti sulla vita. Se capita di essere in ruoli gestionali, attuiamo una pantomima all'insegna del potere orizzontale. Fole per chi ci crede. Alcuni padroni chiedono anche scusa ai dipendenti. Con pubblico adeguato, si intende. Se però si tratta di desideri e di ottenere quello che ci è balugginato in testa, allora torniamo bambini. Davanti alla vetrina dei giocattoli. A casa abbiamo tutto, ma sappiamo che il capriccio giusto farà capitolare il tenue genitore di turno. E lo facciamo. Otteniamo l'ennesimo inutile balocco. Vinciamo, come sempre. E la Terra muore.

- Immagine satellitare del Pianeta. Esistono anche sfere di cristallo che lo racchiudono. Curioso sapere come viene l'idea di segregare la Terra in una sfera. A volte è raffigurata mentre qualcuno la tiene in mano. Peggio mi sento.

4 agosto 2010

LA PAURA DEGLI ANGELI

Sono in usuale negozio di stampe e affini. Sfoglio distrattamente cataloghi ricchi di riproduzioni a colori. Ce n'è per tutti i gusti. Paesaggi improbabili, antichi pittori, moderni imbrattatele. Chi vuole si può riempire la casa di capolavori inestimabili spendendo poco. Mi colpisce come una specie di fulmine la raffigurazione fittizia di particolare famoso della Cappella Sistina. La creazione dell'uomo da parte di Dio. Noto provider telefonico si è impossessato di un ulteriore particolare. La mano di Dio che, creando l'uomo, parte dalla mano di qull'essere nuovo. Sembra quasi un continuum. Dio e l'uomo insieme indissolubilmente. Ma l'interesse è altro. Gli angeli che sostengono e contornano Dio mentre crea, hanno sguardi allarmati. Quasi spaventati e stupiti da ciò che sta facendo il loro Signore. E' come se intuissero l'errore madornale che Egli sta per fare. La loro impotenza davanti al disastro già avvenuto è tutta nei loro sguardi. Non possono evidentemente fare più nulla. La catastrofe è avvenuta davanti ai loro occhi. Il peggio è ormai avvenuto. Dio ha creato l'uomo e sarà immane sciagura. E' come se gli angeli già prevedessero il loro inane impegno come custodi di quella razza dissennata, violenta. Prepotente oltremisura. Non potranno fare molto ed è come se lo sapessero. Custodiranno per mandato divino chi non vuole essere custodito. Veglieranno su persone che non sanno nemmeno che esistono. Proteggeranno gente che si sparerà a velocità irriferibile su strade pericolose e buie. Loro sanno. E hanno paura.

PAROLE E CORPI

Scoppia l'estate prepotente e giallastra. Tutti partono. Città svuotate a misura di straniero errante. Al mare, ai monti o nelle campagne fuori porta. Gente senza lavoro ma pagata si accinge a migrare. Momentaneamente. Verso mari esteri o mete più vicine. Con sè un sacco di cianfrusaglie inutili. E il bagaglio ineludibile del corpo. Altre masserizie a contorno. Il corpo. Che peso. L'estate, si sa, è calda, a tratti bollente. I ginecologi a settembre hanno un gran da fare, tra candide, herpes e non so più cosa. Le donne incidono tacche brillanti su cinture da sera. A segnare le conquiste attuate. Gli uomini, tronfi come tacchini al Ringraziamento, mentono. Raccontano immancabili acchiappi estivi alle macchinette del caffè. Scappano invece come conigli da tane di altri. Imbarazzanti entrambi. Risulta impossibile decidere chi rappresenti il peggio. Nemmeno ricordano il nome. Le donne almeno degli occhi sanno il colore. A volte lo classificano. Nessuno parla al compagno di branda. Nè prima nè dopo. Certo non durante. Curioso sapere come si eviti l'anima. Che è fatta di parole. Anche solo accennate. Basterebbero nomi sussurrati in posizioni persiane. Andrebbe spiegato. Invece nessuno fà domande nè si chiedono risposte. Resta collezione non tanto privata di scatti evanescenti. Almeno fossero seppiati. Varrebbero qualcosa. Invece si guarda il cielo zeppo di stelle cadenti, senza neppure un desiderio da chiedere. E la stella non cade. Ci è risparmiato il dolore di considerare un'assenza totale. A volte, quel vuoto abissale, è la nostra essenza. Siamo fatti di nulla. Nessun desiderio, sogno, una qualunque velleità artistica di un qualche genere. Siamo fatti della materia con cui sono costruiti i sogni notturni, quelli che si dimenticano più facilmente. Non ci si rende conto invece che ci siamo dentro a piedi uniti e saldi. Una conchiglia ordinaria, bordata di verde smeraldo, ci racchiude. Non si considera nè la madreperla che la riveste all'interno, nè quel cerchio splendente che la circonda. Siamo come paguri alla perenne ricerca di nuova casa. Basta che sia più grande.

3 agosto 2010

ABOUT DEATH

Telegrafico e ma denso colloquio con canara di passaggio. Guarda l'animale con occhi languidi.
Vorrei morire prima io del mio cane.

Eh.
Ho già perso tre cani. E' triste. Lui poi è davvero speciale. E' bravissimo e dolcissimo.

Non è meglio se moriamo prima noi. Scusi, lui va avanti ad aprire la porta. Poi lei arriva e lui è già là.
No no. Prima io.

Eh. Scusi, ma sa come finisce? Che poi il cane si lascia morire sulla sua tomba. Le andrebbe bene?
Sì sì. Meglio così.

Il cane è visibilmente soddisfatto e sereno. Pensa alla lunga vita che lo aspetta. Sorride sotto i baffi. Ci giurerei. Lui sa. Sapienza canina.