7 settembre 2010

COME SI DEVE ESSERE

Vado a scuola. Seguo percorsi abituali e il pensiero sta comodo per i fatti suoi. Non mi devo impegnare a riconoscere strade che già so. Ho la mente talmente altrove che con gesto automatico prendo le chiavi che aprono la porta del luogo di lavoro. Apro. Come una fucilata, mi sorprende l'allarme che scatta impietoso riconoscendo un intruso. Non ho le chiavi per il disarmo, non le ho volute. In genere, trovo colleghi più mattinieri di me. L'allarme è cosa recente. Dopo ripetuti furti all'interno dell'edificio e scasso nei locali scolastici, la direzione ha pensato di investire in un sofisticato sistema anti intrusione. Mi pare di averlo collaudato bene. Dopo qualche minuto di rumore assordante, si placa. Non mi sono spaventato per nulla, ma molto irritato per la sventatezza del mio comportamento. Telefonata di rito al direttore per dirgli che ero stato io a far partire il sistema, non si preoccupasse. Mi sembrava più preso dal sonno che gli ho sicuramente interrotto. Attendo fuori dalla porta collega dotato di chiavi disarmanti ed entro anch'io. Mi sento uno straccio. Dormito poco e male. Ragiono su come si dovrebbe essere e non si riesce. Sicuri, riposati, sereni, sociali e con idee chiare e fulgide come specchi al sole. Invece. Siamo mutevoli, introversi come animali notturni, difficili da avvicinare e complicati nei rapporti con gli altri. Contorti come labirinti, si stenta a riconoscere se stessi in costanti che non ravvediamo, nemmeno ad attento esame interiore. In questa spesso vana indagine, acquistano rilevanza cose minime.
Oggetti insignificanti che in qualche modo rinviano alla nostra storia e danno un senso a noi stessi. E nella nostra storia ci ritroviamo, impariamo quello che siamo e cosa possiamo diventare. Anelli sottili come seta compongono ricordi mnimi che ci hanno forgiato. Siamo quello che siamo, a partire anche dalle cose di cui è disseminato il nostro passato. Gli oggetti aiutano. A ricercare un modello di vita praticabile che tutti, consapevoli o no, bracchiamo di continuo. Non si pensi agli oggetti come possesso, brama di qualcosa da esibire per potenziare la fama sociale. Si pensi agli oggetti come traccia del passato, il nostro. Oggetti che dicono dell'infanzia, di affetti perduti ma che erano. Di un'indubbia crescita che ci ha accompagnato. Oggetti che rinviano ad altro, simboli di qualcosa che ci compone e definisce. Oggetti che lottano contro l'oblio che incalza e che spinge in avanti, azzerando lo spazio temporale. Il rischio è la dissolvenza dell'anima o di quello che si percepisce in modo vago nel nucleo nascosto di se stessi. Anche i sentimenti si affacciano attraverso gli oggetti, più spesso attraverso la scia che essi hanno lasciato nel nostro percorso. Uno di questi per me è un vecchio cavalletto da disegno professionale. Me ne fece dono mio padre. Avrò avuto all'incirca sei o sette anni. Era più grande di me e si spalancava in modi misteriosi. Aperto, assomigliava a una gru incombente su di me bambino. Facevo fatica a tenere in mano pennello e tavolozza per arrivare alla tela. Mia madre non approvò quel regalo, per lei inappropriato alla mia età acerba. L'oggetto è rimbalzato fuori da una cantina polverosa e disordinata. Credo fosse più di trent'anni che non lo aprivo. Le cose hanno una loro forza, sanno presentarsi quando meno le aspetti. E' come ci fosse una loro sapienza che sfugge, ma che segue logiche perfette. Ho ritrovato sulla tavolozza chiusa, all'interno del cassetto che fa parte dell'arnese, vecchie intense macchie di colore. Emergono vistosamente cromie blu e verdi. Sono opache, ma al contempo nitide, su un legno ormai invecchiato e cupo. E' una sicura parte di me.


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