
(Wang Wei, Maestro di Kung Fu e Tai Chi; 1996 )
Lo sguardo è stupefacente. Occhi che spiano, che cercano, che piangono, che ammiccano, che si commuovono, che osservano, che semplicemente guardano. In loro, c'è il mondo che ognuno di noi rappresenta. Forse il loro fascino sta in questo. Non c'è uno sguardo uguale all'altro, come per le persone. Ci si è sempre sforzati di penetrare lo sguardo, nei suoi significati e nella sua fisiologia. Si pensi al cinema e a quello strano legame che unisce il film al suo spettatore. Gioco di sguardi che si attua tra la pellicola animata e il suo pubblico. Attraverso le immagini che scorrono, si entra in un mondo altro. Lì ci trasporta lo sguardo. Attraverso di noi la voce del regista può esprimersi. E' il nostro sguardo di spettatori appunto, che permette al film di far esplodere i suoi significati e il suo senso. Senza i nostri occhi, il tutto resta come senza voce, senza una collocazione di senso.
E poi ancora, gli sguardi delle madri per i figli e dei figli per le madri. Tenerezza, bisogni, amore, riconoscenza, dolcezza. Tutto si mescola in un legame fortissimo. Che spesso passa dallo sguardo, oltre che dai gesti che ad esso rinviano.
I colori dell'iride ancora sono infiniti. Azzurri come il mare o come il ghiaccio, verdi come fondi di bottiglia o pezzetti di giada, marroni come castagne screziati di verde boschivo. Occhi neri, profondissimi e nostalgici. Quando c'è, lo sguardo rivela l'anima di chi lo possiede, è finestra sul mondo interiore di chi ce lo regala. Spesso non lo si sa sostenere. Si scarta via timidi e spaventati davanti a quella domanda senza parole che ci chiede di dirci, raccontarci. Spesso non lo sappiamo fare e fuggiamo.
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