17 settembre 2010

STILI

Avvisaglie di potenziali problemi. Già i primi giorni due allieve si sono accapigliate. Per fortuna fuori dalla scuola. Si sono messe le mani addosso senza farsi male, ma offrendo sicuri messaggi di attacco e sfida. Di contro, in aula sono più atarassico del solito. La mia calma fà imbestialire molti allievi. Non capisco il motivo. C'è chi mi rinvia che ce l'ho di certo con lui. Faccio presente il mio tono di voce e le parole che uso con attenzione. Chi mi sta di fronte in genere è alterato. Rossi in viso, voce sopra alle righe, parole improprie. Forse il fatto che nulla mi smuove non pare vero. Mi interrogo sulla spontaneità del mio modo di fare. Non ho nulla da rimproverarmi. E' una mia dimensione. Ne sono certo. Forse lo diventa di più quando fuori è evidente tempesta. Non so dire. Invito anche gli allievi alla calma. Parole che scendono come acqua su un'oca. Ma io rilancio e continuo con il mio stile abituale. Che poi non è sempre uguale. Mi capita di chiamare con voce più alta del solito qualcuno che bighellona in corridoio o di alzare il tono in classe. Faccio attenzione che sia sempre di poco. Non amo la protervia, il peso che potrei dare al ruolo con piccoli atti di arbritarietà quotidiani. E' come se desiderare serenità intorno fosse colpa grave e cosa da conquistare e imporre. Forse è così. E forse spiego meglio l'impulso naturale di tornare a casa il prima possibile. Fuori dalla bolgia, dal rumore, dal traffico delle strade. Dal caos del mondo. Ragiono sulla vulnerabilità e sull'apparire inermi. Comportamenti che i  miei allievi non conoscono o non riescono ad agire. La maggior parte di loro gira spesso mentalmente armata e pronta all'attacco, verbale o fisico. Altri subiscono. In ogni caso sono comportamenti estremi che andrebbero ricalibrati. E' come non esistesse tra loro chi per natura sia mite e benevolo. E riuscisse a mantenerla. Forse è così anche nel mondo degli adulti . Loro non possono che scimmiottare ciò che vedono. Nel farlo può essere che esagerino. O no.

15 settembre 2010

LETTURE ESTIVE

Non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità di ognuno è il suo genio - Charles Baudelaire

Arrivano. Sparsi come nugoli di mosche a fine stagione. Già stanchi ancora prima di iniziare. Sono gli allievi della scuola professionale dove insegno. Un altro anno formativo è cominciato. Un altro di fatiche spese a fare non sempre si sa cosa. Li accogli. Con la tua faccia rassicurante e modi zen che interpreti da anni. Ci si crede talmente che si pensa che quell'apparenza appartenga davvero. Forse è così. La dimensione della quiete, della pace, dell'armonia dell'ambiente è quella che sento che più mi appartiene. Non sempre è possibile agirla o riscontrarla intorno. A scuola ad esempio, è difficile. I ragazzi sono perlopiù sguaiati, rissosi, parlano a voce alta e gridano. Anche solo per salutarsi. Riportarli a dimensione di vita più civile è spesso cosa ardua. Con il pretesto di fornire brandelli di conoscenza, si fà. In una classe propongo un test d'ingresso banale. In breve il compito è esaurito. Correzione collettiva a cui faccio seguire domande su presunte letture estive.  Risposte imbarazzanti. F. si avvicina alla cattedra, perché parlare davanti a tutti la mette in imbarazzo. Ha orecchini lunghissimi che terminano con un'enorme farfalla, una profusione di braccialetti di mille colori  e forme le riempie i polsi. Una collana con un grosso cuore di porcellana  adorna il collo sottile. Trucco leggero e piercing al naso concludono l'insieme. Mi dice che ha iniziato a leggere Se questo è un uomo. Non è riuscita a concluderlo per l'ansia che le procurava. Ricorda di quando la scuola media ha organizzato una gita in Germania. Tour dei campi di sterminio compreso. Anche allora era stata male. La ascolto e le suggerisco di sforzarsi ad andare avanti nella lettura intrapresa. La vita è fatta anche di questo. Non abbiamo più a che fare con i campi di sterminio o con possibili deportazioni. Ma. E poi mi fermo. Non so più come dirle che comunque l'esistenza è a tratti assai complicata. Meglio iniziare ad avvicinarla nei libri, se possibile. Prima o poi a tutti accade qualcosa di poco spiegabile, che colpisce come fucilata. Un lutto, una perdita, una malattia, un qualcosa che può assumere forme diverse per ognuno. Ma ognuno di noi sa. Cosa fà più male, cosa arriva davvero a massacrare il cuore. E allora che si fà. Conoscenza, cultura, risorse intellettuali spese a fronteggiare un'onda anomala che colpisce inesorabilmente. Occorre uscirne, pena la morte esistenziale. Non sempre è facile. Per alcune sensibilità, come quella di F. che mi fissa con sguardo acquoso, forse è impossibile. Mi sforzo di indicare sentieri, percorsi praticabili per affrontare la vita e le sue sicure difficoltà. Parlo di teatro e maschere. Non riesco a dire quanto sono convincente.

13 settembre 2010

TRAGEDIA E MASCHERE

In casa del mio amico accedo sempre a cose interessanti. Da una parte, un libro di disegni. Il  soggetto è  lo tsunami  che ha colpito lo Sri Lanka del 2004. Dall'altra, una maschera carnascialesca di fattura artigianale. Il contrasto è pazzesco.  I dipinti sono di ragazzi del luogo che hanno messo su foglio le loro emozioni più autentiche. La tragedia azzera evidentemente la finzione, la maschera. Anche nei fanciulli. I colori sono scuri, a tratti cupi;  i volti, spesso disegnati nei particolari, mostrano terrore e spavento smisurato. Il mare è un po' in tutti i dipinti: onde, come cascata, invadente, scomposto nei colori. Le barche sono come gusci di noce in balia di onde variopinte. Le persone sono raffigurate nei dettagli. Molte le braccia alzate verso il cielo. Occhi grandi, nessun sorriso sul viso di nessuno, figure in movimento, spesso in fuga. I disegni sono nitidi, nessuna incertezza nel tratto o nel colore utilizzato. Molti hanno scelto di raffigurarsi in salvo, come poi è stato. In altro modo non si spiegano i dipinti. I ragazzi non hanno dato titolo alle loro opere. Lo hanno fatto per loro i curatori del volume. Penso che se ne potesse fare a meno. E' raro vedere quadri così eloquenti. Come se provare emozioni, sentire il dissiparsi degli affetti, delle persone care, sia stata una cosa sola con il dare forma al disegno. Si è davanti a qualcosa che azzera la menzogna, l'inganno, gli specchi ipocriti a cui spesso si rinvia nella vita di tutti i giorni.  Come le cose sono e come appaiono.


In alto, in posizione evidente, ma defilata, una maschera di carnevale. E' un calco di gesso bianco;  naso sottile, le aperture degli occhi a mandorla sormontate da due losanghe azzurre intenso. Una piccola bocca  arcuata in un sottilissimo sorriso enigmatico è dipinta del medesimo colore. Leggeri rami fioriti della medesima cromia, sopra un occhio e sullo zigomo opposto. L'insieme è affascinante e inquietante allo stesso tempo. Il fascino è dovuto all'ignoto. Ciò che non si conosce ammalia. La maschera poi è umana, si sottintende un soggetto in qualche modo simile e avvolto da mistero profondo. Un io chiaramente teatrale, si nasconde, si camuffa e prende forme inconsuete. Chi non ne viene attratto. L'inquietudine credo sia dovuta all'impossibilità di definire, cogliere un qualsivoglia significato che dica una verità che forse non c'è. O se c'è è così nascosta che risulta inattingibile. Da cui la maschera appunto, che nasconde, protegge e spesso falsifica l'essere. Così l'individuo non si svela, non offre il fianco  a chi vuole avvicinarsi troppo. Ognuno si è specializzato a non mostrarsi per ciò che è. Si ha a volte più o meno consapevolmente la netta sicurezza del poco che siamo. Per questo avvicinarsi e avvicinare in modo autentico impaurisce. Nessuno lo fa con leggerezza. Infatti, spesso si preferisce una distanza che protegge. E' come se in un mare in cui veleggiano una moltitudine di barche, diverse per dimensione, foggia e colore, una di queste lanciasse una cima per avvicinarsi a un'altra. Molti lo descriverebbero come atto di pirateria. Forse lo è.

- L'immagine riporta alcune tipologie di cima nautica. Servono sulle imbarcazioni per diversi scopi. Si differenzia inoltre la cima buona da quella cattiva. In un cavo aggomitolato a successive spire, l'una sull'altra, s'indicano così, rispettivamente, l'estremità libera, che rimane al di sopra di tutte le spire, e quella di sotto.

11 settembre 2010

GENTE E CASE

Sono di nuovo in terre di confine. Per andare dal mio amico percorro una strada poco agevole, stretta e pericolosa.  La via è segnata sulla sinistra da una grande casa che appare disabitata. E' una specie di bicoccca giallastra, diroccata, attaccata dal tempo e dall'aria umida del luogo. Davanti la ingentilisce un alto pino argentato, ricco di frasche e sempreverde. C'è un che di malinconico nell'insieme che conferisce fascino alla dimora, abbandonata, insieme all'evidente vitalità della pianta. Penso a un mio vicino di casa. Un uomo ormai avanti negli anni, abita una casa trascurata e sporca. Nel quartiere si è procurato una pessima fama, per il suo carattere introverso e rissoso. Se qualcuno occupa il posto macchina che reputa suo, non esita a rigare fiancate e bucare gomme. Bestemmia spesso tra sè e sè e traffica con pezzi di lamiera giorno e notte. Non si capisce se si tratti di un lavoro o di un eterno trasloco. Soprattutto di notte, l'uomo procura baccano a nonfinire, con il suo andare e venire da un cortilaccio interno alla sua dimora. A volte compare la polizia per  controlli. Ma uno dei giorni scorsi l'ho visto per caso appoggiare due rami di lauro sulla finestra di altra vicina anziana, a sua volta schiva e solitataria. Il gesto era gentile e delicato. La gente. Ci pare in un modo, inequivocabile e chiaro. Poi però, effetto speciale. Alcune case in ogni modo assomigliano a qualcuno che crediamo di conoscere. A volte è così, altre ci stupiamo.

10 settembre 2010

PROSPETTIVA

A scuola faccio il giro dei locali. Sembro un cane che annusa angoli conosciuti. Usuale sigaretta alla finestra del fumoir. Rivedo il fiumaccio che scorre dalla città verso un fuori che non so dov'è. Nella luce settembrina non sembra così inquinato come il solito. Nei pressi di uno degli orti familiari, riconosco il lavandino che il proprietario ha cercato di tirare in secco prima dell'estate. E' ancora lì, immerso nell'acqua, ricoperto di melma verde. Altri dettagli, prima non evidenti, si stagliano contro la mattina inoltrata. Un lampione, un manichino di donna sospeso di traverso, giochi per bambini che non so identificare. Oltre le cose, riconosco  un albero di fichi con frutti quasi maturi. Riappare l'anziano, oggi è vestito. Il caldo non incalza più. Con gli abiti pare più giovane e spende energie a mettere a posto aiuole di insalata e altri ortaggi. Porta un cappellino con visiera blu e pare un addetto al pit stop in qualche circuito secondario. Ha energia, movimenti lesti e definiti. Nessuna incertezza fa trapelare l'età avanzata. Si muove con perizia tra i bassi ortaggi coltivati. La mano è sapiente di chi conosce la terra. Il lavandino può evidentemente attendere. Oggi raccoglie insalata e pomodori maturi. Da altre finestre invece si può vedere un condominio con piscina. Pare di avere avuto accesso ad altro pianeta. Invece ho solo cambiato l'infisso da cui osservo.

9 settembre 2010

SETTEMBRE

Il Sole, nel suo moto annuo lungo l'eclittica, al momento dell'equinozio d'autunno (verso il 23 settembre) viene a trovarsi esattamente sull'equatore celeste nel punto della Bilancia.



C'è un bel freddo. Dopo temporale serale e notturno, le ore della prima mattina invitano l'autunno pieno. Cielo terso, il vetro della macchina appannato. Sto in maniche corte e senza calze, dentro calzature ancora estive. Non mi dispiace. L'aria è frizzante e tutto odora di appena lavato. Si avvicina l'equinozio di autunno e il parco che costeggio ogni mattina sembra aspettarlo. E' una stagione che mi ha incantato da sempre, questa che si apre con settembre. Sarà che ci sono nato. Saranno i ricordi di quando si riprendeva la scuola il primo ottobre e settembre era ancora vacanza. Sarà il fogliame urbano che inizia ad ingiallire in tavolozze spettacolari. Non so dire. Settembre mi mette addosso un'energia come mai in nessuna parte dell'anno. Mi piace questa stagione. Venti improvvisi, aria brillante di piogge intense, odore di umido nell'aria nitida e pura. Si respira anche in città, dove di solito si boccheggia. Dura poco, giusto un mese circa. Ma finchè è settembre, ogni cosa sembra nuova, anche se si prepara il sonno invernale. In un attimo poi si è a natale, con il freddo e l'aria pungente. Dormo persino meglio. Le coperte pesanti aspettano riposte in armadio adatto. Basta un plaid leggero.
L’equinozio d’autunno sarà a breve, intorno al 20 del mese. E' il momento dell'anno in cui il giorno e la notte hanno la stessa durata. Poi le giornate incominceranno a sembrare più corte. Forse lo sono. Ma quel giorno i raggi del sole colpiranno perpendicolarmente l’equatore. Il globo sarà illuminato allo stesso modo, il sole sarà allo Zenit sull’Equatore. L'equinozio d'autunno è anche chiamato Punto della Bilancia. Mi sfugge il motivo. In ogni caso è il mio segno zodiacale, qualunque cosa possa significare.


- Lo Zenit, è l'intersezione della perpendicolare al piano dell'orizzonte passante per l'osservatore, con l'emisfero celeste visibile. E' quindi il punto sopra la testa dell'osservatore. Il punto diametralmente opposto è detto Nadir. Zenit e Nadir sono i poli dell'orizzonte.
La parola è di derivazione
araba.

7 settembre 2010

COME SI DEVE ESSERE

Vado a scuola. Seguo percorsi abituali e il pensiero sta comodo per i fatti suoi. Non mi devo impegnare a riconoscere strade che già so. Ho la mente talmente altrove che con gesto automatico prendo le chiavi che aprono la porta del luogo di lavoro. Apro. Come una fucilata, mi sorprende l'allarme che scatta impietoso riconoscendo un intruso. Non ho le chiavi per il disarmo, non le ho volute. In genere, trovo colleghi più mattinieri di me. L'allarme è cosa recente. Dopo ripetuti furti all'interno dell'edificio e scasso nei locali scolastici, la direzione ha pensato di investire in un sofisticato sistema anti intrusione. Mi pare di averlo collaudato bene. Dopo qualche minuto di rumore assordante, si placa. Non mi sono spaventato per nulla, ma molto irritato per la sventatezza del mio comportamento. Telefonata di rito al direttore per dirgli che ero stato io a far partire il sistema, non si preoccupasse. Mi sembrava più preso dal sonno che gli ho sicuramente interrotto. Attendo fuori dalla porta collega dotato di chiavi disarmanti ed entro anch'io. Mi sento uno straccio. Dormito poco e male. Ragiono su come si dovrebbe essere e non si riesce. Sicuri, riposati, sereni, sociali e con idee chiare e fulgide come specchi al sole. Invece. Siamo mutevoli, introversi come animali notturni, difficili da avvicinare e complicati nei rapporti con gli altri. Contorti come labirinti, si stenta a riconoscere se stessi in costanti che non ravvediamo, nemmeno ad attento esame interiore. In questa spesso vana indagine, acquistano rilevanza cose minime.
Oggetti insignificanti che in qualche modo rinviano alla nostra storia e danno un senso a noi stessi. E nella nostra storia ci ritroviamo, impariamo quello che siamo e cosa possiamo diventare. Anelli sottili come seta compongono ricordi mnimi che ci hanno forgiato. Siamo quello che siamo, a partire anche dalle cose di cui è disseminato il nostro passato. Gli oggetti aiutano. A ricercare un modello di vita praticabile che tutti, consapevoli o no, bracchiamo di continuo. Non si pensi agli oggetti come possesso, brama di qualcosa da esibire per potenziare la fama sociale. Si pensi agli oggetti come traccia del passato, il nostro. Oggetti che dicono dell'infanzia, di affetti perduti ma che erano. Di un'indubbia crescita che ci ha accompagnato. Oggetti che rinviano ad altro, simboli di qualcosa che ci compone e definisce. Oggetti che lottano contro l'oblio che incalza e che spinge in avanti, azzerando lo spazio temporale. Il rischio è la dissolvenza dell'anima o di quello che si percepisce in modo vago nel nucleo nascosto di se stessi. Anche i sentimenti si affacciano attraverso gli oggetti, più spesso attraverso la scia che essi hanno lasciato nel nostro percorso. Uno di questi per me è un vecchio cavalletto da disegno professionale. Me ne fece dono mio padre. Avrò avuto all'incirca sei o sette anni. Era più grande di me e si spalancava in modi misteriosi. Aperto, assomigliava a una gru incombente su di me bambino. Facevo fatica a tenere in mano pennello e tavolozza per arrivare alla tela. Mia madre non approvò quel regalo, per lei inappropriato alla mia età acerba. L'oggetto è rimbalzato fuori da una cantina polverosa e disordinata. Credo fosse più di trent'anni che non lo aprivo. Le cose hanno una loro forza, sanno presentarsi quando meno le aspetti. E' come ci fosse una loro sapienza che sfugge, ma che segue logiche perfette. Ho ritrovato sulla tavolozza chiusa, all'interno del cassetto che fa parte dell'arnese, vecchie intense macchie di colore. Emergono vistosamente cromie blu e verdi. Sono opache, ma al contempo nitide, su un legno ormai invecchiato e cupo. E' una sicura parte di me.


6 settembre 2010

IN MORTEM

Arrivo a scuola. Baci e abbracci di prammatica. La sensibilità, si sa, non è cosa sociale. Lo zelante collega mi dice al brucio che V. è morta. Era un'allieva adulta dei corsi pomeridiani. Corsi per figure professionali umili, ma necessarie, a quella specie di fabbrica che prende il nome di ospedale. La ricordo bene. Passo agile e leggero. Età indefinita dietro una silhouette sottile e veloce. Non era giovane e stupiva quel suo essere in un gruppo classe di persone molto più giovani di lei. Occhi marini, plasmati dalla ridente cittadina litoranea da cui proveniva. Capelli di un rosso improbabile incorniciavano un viso di porcellana senza rughe visibili. Restava l'incongruenza bizzarra di sopracciaglia disegnate a matita. Il portamento era altero, quasi da regina capitata per sbaglio in un regno sconosciuto e non suo. Avevo accettato io la sua iscrizione al corso. La ricordo bene, anche per una presenza in classe molto attiva e intelligente. Si soffermava volentieri in digressioni colte. Mi chiedeva di continuo consigli di lettura e film d'autori francesi. Le piaceva la Nouvelle Vague, Truffaut e Godard su tutti. Per i libri aveva un debole per i grandi autori russi. Aveva letto di tutto, credo anche più di me che non mi faccio mancare nulla. Le piaceva passare l'intervallo a parlare di letteratura. La seguivo volentieri. Pare che avesse ereditato una fortuna svizzera dilapidata in un soffio al gioco d'azzardo. Conviveva in città con una compagna di corso. Durante il tirocinio estivo che la obbligava a turni massacranti, si è alzata di buon mattino e si è preparata di tutto punto per uscire. Si è lanciata senza un rumore percepito dalla finestra del bagno. La polizia allertata credeva di trovare sul selciato un'adolescente. Invece era lei. Anche la compagna di stanza credeva che il morto fosse altra persona. Nessuno si è accorto di nulla. Magari di una tristezza incolmabile, di un'ansia incontrollata o più semplicemente di quanto era sola. E' scomparso qualcuno che già non esisteva da tempo. Non aveva familiari nè amici intimi. Resta mistero profondo cosa porti all'auto annientamento. A scegliere pervicacemente il tempo e il modo della morte. Forse è solo il giorno sbagliato, con una congiunzione astrale nefasta. Resta un enigma insoluto, cosa non faccia attendere il fine naturale della vita. Cosa scatti dentro qualcuno perché venga annullata la curiosità di vedere come va a finire. Lottando e soffredo magari, ma con sfumature che vale la pena vivere. Il collega sciorina saputo altre notizie che non ricordo. Forse non le ho dato l'indicazione di lettura giusta.

PREDICA

Ieri ho incrociato per caso prete amico. E' un personaggio particolare, esce dai canoni dell'immaginario sulle persone consacrate. Piccolo e dalla pelle giallognola. Ampi occhiali quadrati sormontano un viso spigoloso e asciutto. Piegato sotto il peso di vite e dolori non suoi. Soffre di attacchi di panico, anche quando dice messa. Parla poco ed è impegnato in organismi sociali del territorio. Parla di chi va in chiesa e si sente un buon praticante. Nulla di più sbagliato, asserisce con voce bassa e monocorde. In chiesa ci vai perché ti devi sentire il nulla che sei. Occorre sempre considerare se stessi a partire dai propri limiti che, se visti da vicino, sono davvero tanti. Solo così si può aspirare a un certo cambiamento, ad una trasformazionne che ci renderà migliori. Parla di conversione a U. In realtà, il nostro stesso definirci dovrebbe partire dalla riflessione sul nulla che siamo. Ci dovremmo tutti definire a partire dalle nostre mancanze, dai limiti che ognuno di noi ha e che spesso vengono messi da parte facendo finta che non esistono. E' cosa usuale metterci in luce con il nostro abito migliore, quello che ci siamo cuciti su misura a partire da una consapevolezza velleitaria di obiettivi raggiunti. Così ci presentiamo al mondo e ci mettiamo in mostra anche nella nostra vita privata. Con abiti non nostri che ci piacerebbe possedere. Tanto che ci convinciamo che ci appartengono. Invece. Si parta da chi o cosa non siamo, dalle virtù che non riusciamo a fare nostre, da quel nucleo durissimo dove le cose buone vanno costruite e guadagnate. Con il cambiamento umile di ogni giorno. Solo così possiamo diventare migliori. Lo saluto frettolosamente. Oggi sono stato in chiesa senza pensare di volerci andare.

5 settembre 2010

7.05a.m.

I rientri portano con sè sempre buoni propositi. Uno dei miei è di fumare meno. A tal fine, decido di riprendere la corsa. Lo facevo da ragazzo. Avevo poco fiato e mi incaponivo a impegnare i muscoli oltremisura. Il giorno dopo era didastro assicurato. Acido lattico ovunque, anche in muscoli che pensavo di non avere. Il parco periferico in cui mi reco è deserto. A farmi compagnia nugoli densi di cornacchie sfacciate. Diverse dai corvi, loro affini, più grandi e di colori sfumati, dal nero al grigio. Becchi grandi e voraci si intrufolano sapienti in cestini verdi della spazzatura. L'amministrazione locale le ha portate in quel luogo per contenere l'avanzata inesorabile del piccione urbano. In realtà, le due comunità hanno trovato una sorta di agreement, per cui le due specie si sono spartite fraternamente il territorio. Sicchè ora il parco ha una folta comunità sia di piccioni che di cornacchie. L'ecosistema gode. Il parco ha una planimetria pressocché rotonda; mi avvio in uno dei viali principali.

- L'immagine rappresenta la tecnica di corsa per il calciatore. Mi sembra simile al footing, anche se non ho mai giocato a pallone. Nemmeno da piccolo.

La corsa è fantastica. Impegna il corpo quel tanto che basta per lasciar fluire liberi i pensieri, si va dove si vuole, nessuno ti costringe a fare nulla che tu non voglia. Si producono endorfine a pacchi e già dopo il primo giro sento salire l'umore. Costa poco e puoi farlo quando vuoi. Vincoli quasi zero. Dimensione perfetta per anarchici. Incrocio al secondo giro un paio di canare stanche. I loro quadrupedi più sfiancati ancora, non sembrano godere dell'occasione offerta. Io invece ritrovo con piacere il ritmo cadenzato del fisico in movimento atletico, il cuore non accellera eccessivamente e le gambe rispondono bene. Mi fermo dopo il terzo percorso, non voglio strafare. Per essere il primo giorno mi pare abbastanza. Mi sento molto kantiano; fà ogni cosa come se diventasse norma. Mi ritrovo in pace con il mondo e sento di aver fatto una cosa buona. Torno a casa. Domani sarà scuola, con tutti gli impegni di seguito. Non accendo l'usuale sigaretta, nè prima nè dopo la doccia.

4 settembre 2010

RIENTRO

I giochi sono finiti. Le vacanze, quello spazio vuoto riempito spesso di nulla, stanno al termine. Per me, se avete letto, è stata occasione di riflessione e contemplazione in ambiente montano. Sono contento di rientrare; la stasi, il riposo non fanno per me. Se mi lascio troppo solo con me stesso, peggiora in un istante la mia indole solitaria e meditabonda. Divento insopportabile. Gli amici mi scartano. Credo facciano bene. La vita è già abbastanza complicata, senza che qualcuno lo sottolinei di continuo. Inoltre, mi risulta facile l'aggressione e la lettura dei comportamenti altrui. Pecco di presunzione e credo sempre di aver capito chiaramente ciò che è solo frutto di un mio pensiero non sempre lucido. A volte, esprimo le mie elucubrazioni o, a seconda dei casi, i miei deliri, in modo brusco. Trascuro la sensibilità di chi mi sta intorno. Sono un disastro nelle relazioni e la pago di continuo.
In ogni caso, il lavoro che mi aspetta mi aiuta. Socialità, contatto con colleghi e giovani studenti mi riportano ad una dimensione accettabile. Imparo ogni giorno qualcosa e metto a punto diversi vestiti sociali adatti. Se mi considero con occhio esterno, ho davanti un uomo di mezza età schivo e gentile. Persino solare. Raramente aggressivo. Molti mi dicono che ispiro fiducia e sicurezza. Potenza dell'immaginazione. O forse davvero nei giorni buoni do quest'impressione. E a volte mi ci sento anche, sicuro e fidato intendo. Con i ragazzi poi il rapporto non presenta grandi difficoltà. Sono anzi un'occasione per non scordare com'ero da giovane. E' importante non dimenticare o, a seconda dei casi, tirare fuori un ricordo al momento giusto. La memoria, i ricordi, sono una traccia importante della nostra storia nel mondo. Ci definiscono. Ci permettono il cambiamento. Tutte le adolescenze paradossalmente, viste con sguardo adulto, hanno spesso tratti comuni. Perciò risultano rassicuranti. Pur nella diversità dei percorsi e delle esperienze. Il corpo cresce e cambia, la personalità è ancora in formazione, generando le insicurezze di sempre. Idee poche e confuse. Non eravamo tutti così? Spesso però lo si dimentica. Il ricordo di quando eravamo ragazzi sfuma per sempre. E' come se fossimo nati già grandi.

3 settembre 2010

DENTRO LO SGUARDO

« Se mi accorgo che qualcuno mi guarda con odio, non reagisco. Mi limito a fissarlo negli occhi, avendo cura di non trasmettergli alcuna sensazione d'ira o di pericolo. E il combattimento, prima ancora di cominciare è già finito. Il nemico da battere è dentro di noi. Le arti marziali non significano violenza, ma conoscenza di se stessi e degli altri».
(Wang Wei, Maestro di Kung Fu e Tai Chi; 1996 )


Lo sguardo è stupefacente. Occhi che spiano, che cercano, che piangono, che ammiccano, che si commuovono, che osservano, che semplicemente guardano. In loro, c'è il mondo che ognuno di noi rappresenta. Forse il loro fascino sta in questo. Non c'è uno sguardo uguale all'altro, come per le persone. Ci si è sempre sforzati di penetrare lo sguardo, nei suoi significati e nella sua fisiologia. Si pensi al cinema e a quello strano legame che unisce il film al suo spettatore. Gioco di sguardi che si attua tra la pellicola animata e il suo pubblico. Attraverso le immagini che scorrono, si entra in un mondo altro. Lì ci trasporta lo sguardo. Attraverso di noi la voce del regista può esprimersi. E' il nostro sguardo di spettatori appunto, che permette al film di far esplodere i suoi significati e il suo senso. Senza i nostri occhi, il tutto resta come senza voce, senza una collocazione di senso.
E poi ancora, gli sguardi delle madri per i figli e dei figli per le madri. Tenerezza, bisogni, amore, riconoscenza, dolcezza. Tutto si mescola in un legame fortissimo. Che spesso passa dallo sguardo, oltre che dai gesti che ad esso rinviano.
I colori dell'iride ancora sono infiniti. Azzurri come il mare o come il ghiaccio, verdi come fondi di bottiglia o pezzetti di giada, marroni come castagne screziati di verde boschivo. Occhi neri, profondissimi e nostalgici. Quando c'è, lo sguardo rivela l'anima di chi lo possiede, è finestra sul mondo interiore di chi ce lo regala. Spesso non lo si sa sostenere. Si scarta via timidi e spaventati davanti a quella domanda senza parole che ci chiede di dirci, raccontarci. Spesso non lo sappiamo fare e fuggiamo.

2 settembre 2010

ASSEMBLEA GENERALE

Con bell'abito d'acciaio faccio comparsa a convention aziendale. Sul palco Direttore, Presidente, Specialisti si alternano in chiacchiere pubblicitarie. Colpisce l'accademico di turno. Finto casual sotto mascella volitiva, sguardo e volto da furetto. Fa scalpore un anello con pietra grande come uovo di quaglia all'anulare della mano sinistra. Snocciola numeri e statistiche, mostra grafici sobri e noiosi, dichiara con enfasi trattenuta teorie sul lavoro di stampo sociologigo. Quando finisce intervento, il suo sguardo percorre la sala in cerca di caviglie sottili e scollature procaci. Non ha che da scegliere.
Il partèrre è variegato. Molte le donne. A ridosso delle vacanze, bellissime e raggianti. Altre, dimesse e bruttine, stanno in posizione defilata. Quasi si vergognano della loro presenza in quel luogo di uomini di potere a grancassa di qualcosa che a loro sfugge. Quelle belle invece sfoggiano abiti estivi e pantaloni attillati, su figure asciugate da ampie abluzioni balneari. E' uno spettacolo per gli occhi. Arrriva in vistoso ritardo bellissima di turno. Capelli ricci, lunghissimi e rossi. Con sussiego, ondeggiando dolcememte su pericolosi tacco12 si adagia in prima fila. Corrono sguardi di intesa tra lei e il Presidente al tavolo dei conferenzieri. Gli uomini sono meno sgargianti. Riguadagnano la loro presenza scenica tra chi disserta. Sono solo maschi. In coda agli interventi, due giovani donne in posizione gestionale, riempiono la coreografia con parole inutili. In sala, gli astanti sono sfiniti. Dalle 9 alle 14 con un breve intervallo per il bagno o la sigaretta. Poche schiene dritte, il più piegato in onde indefinite.

1 settembre 2010

EPITAFFIO E PANEGIRICO

Syrius Black è morto. Cane coraggioso e fedele i suoi padroni lo ricordano felice e spensierato. Occhi dolci e appassionati, resterà per sempre nei nostri cuori.


Il cane a cui facevo saltuariamente da dogsitter è morto. Dopo breve, ma penosa malattia, se ne è andato per sempre. Lo ricordo come un cane docile e buono. Sguardo acuto e intelligente di meticcio da origini oscure. Fu adottato da canile cittadino. Era stato abbandonato. Forse troppo grosso per una casa inadatta. Non mordeva e non attaccava i pari. Passeggiava preferibilmente solitario nel parco cittadino. Non degnava di uno sguardo i sodali più bellicosi e arroganti. Nessun accenno di aggressività. Mai. Solo forti latrati dalla porta di casa, quando qualcuno di estraneo alla famiglia arrivava. Oppure per entusiasmo all'idea della passeggiata.
Si faceva fare coccole sulla pancia e dietro le orecchie. Si stendeva e mugolava felice per l'inatteso contatto. Era un piacere farlo passeggiare. Capivi che ti era grato. Annusava metodico i suoi angoli preferiti. Sempre quelli. Ti guardava come a dire: "Già finita la passeggiata?". E tu lo riportavi volentieri a fare ancora qualche giro.