Caldo africano. Credo quasi 40 gradi. Molto umido, poca aria. Metropoli in via di dissolvenza causa eccesso di temperatura. Passanti come fette di prosciutto tra asfalto sciolto e cielo incombente con scarso ossigeno. Il colore del cielo è slavato, come se la calura l'avesse scolorito con qualche incantesimo. Inutile dire come sia arduo dormire. Non tanto per il caldo, ma per l'ossigeno che sembra meno a causa di esso. E quindi immagino neve. Candida, soffice, a larghi fiocchi densi come frittelle di mele. Ricopre i tetti di una qualunque città di montagna che immagino la mia. Attutisce i rumori, smorza la velocità delle macchine, attenua i suoni intorno. Nulla rompe l'incanto. Le macchine sembrano immensi regali natalizi ammantati di bianco, quel bianco poi che riluccica al chiarore dei lampioni o della sera che si annuncia con sparsi fanali. E inatteso arriva il freddo, leggero e insistente come una piuma passata sotto i piedi. E mi addormento, felice tra i fiocchi di neve che atterrano inconsistenti sul lenzuolo dalla finestra rimasta aperta. La zanzariera, magicamente, non li trattiene.
Neve a Giverny (Claude Monet Parigi 1840 - Giverny 1926)
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